Il romanziere vive la letteratura «come fosse una istituzione, pretendendo un ascolto che non può più essere conferito»; ciò è conseguenza di un’«ipertrofia dell’io», che si esprime nella «pretesa di rendere visibile la propria solitudine», disprezzando il popolo in caso di insuccesso, assecondando il pubblico se colti dal successo. Queste parole e i concetti che le legano sono tratti da un libro importante di fine Novecento, La democrazia magica, il saggio critico che Franco Cordelli pubblicò per Einaudi nel 1997 (poi da Fandango, nella riedizione del 2012). Credo occorra tornare a quel saggio per leggere Una sostanza sottile (Einaudi «Supercoralli», pp. 268, euro 21,00), il nuovo romanzo – il termine è parziale ma inevitabile – di Franco Cordelli, che vede la luce sei anni dopo La marea umana (e diciassette dopo Un inchino a terra, l’ultimo suo libro uscito per Einaudi). La democrazia magica aiuta a comprendere motivi e strutture profonde della nuova opera: perché di fronte alle domande immediate che i lettori di Una sostanza sottile in buona o mala fede potrebbero formulare (chi parla nel libro? di quali fatti e persone narra la fabula?), la trama del racconto è sfuggente. Non così la sua sostanza, distillata da una riflessione seria e radicale intorno alle ragioni dello scrivere.

Nella Democrazia magica, Cordelli si ispirava a Benjamin distinguendo tra narratore, romanziere e scrittore. Al narratore, ‘epico’ o ingenuo, si contrappone il romanziere, cui interessano i fatti e le figure come fuochi di un’«implicita ideologia della narrazione – così Cordelli nel saggio – ideologia del pieno, (…) dell’ordine e del senso del mondo». Lo scrittore rifiuta invece la pretesa di esemplarità del racconto mimetico, alternando pensiero e rappresentazione senza imporre una sola chiave di lettura. È un risvolto della ‘democrazia’ secondo Cordelli, che consiste anche nel confrontarsi con la solitudine dello scrittore: questi infatti non potrà contare né sulla sintonia spontanea con le cose, propria del narratore, né sull’ambiguo rispecchiamento della vicenda individuale nel destino di tutti, come il romanziere.

La solitudine dello scrittore: una questione di cui tener conto per interpretare Una sostanza sottile, a cominciare dalla sua ambientazione principale, la Provenza. Certo, ad Avignone si svolge il celebre festival teatrale che il Cordelli critico conosce e frequenta. All’occasione autobiografica si unisce tuttavia un investimento simbolico; la Provenza, patria di Char, terra d’elezione di Durrell e Van Gogh, è soprattutto teatro della beata solitudine di Petrarca, oggetto e mezzo di una salvezza che il protagonista di Una sostanza sottile non cerca: «“Petrarca mi viene in mente perché è sempre in posa, mi snerva: lui soffriva, capisci? (…) Però, sulla testa, a destra e a sinistra, gli garantivano la bella vita e, in più, l’immortalità”».

La Provenza è sfondo del dialogo che attraversa tutto il libro, quello tra il padre «François» e la figlia «Irene», voce del racconto che parla e s’incarica di raccontare, per l’interposta persona dello scrittore, amori, vicende famigliari, storie di libri e di artisti, incontri come quello con la psicanalista Michèle Jung (dal nome evocativo ma ingannevole). Una figura deuteragonistica interveniva anche in La marea umana; ma qui la figlia, pur non essendo un personaggio a tutto tondo («Non finirò con lo scrivere – si chiede lei – un libro (…) in cui vi sarà un solo attore, colui che parla, sia che parli in prima che in terza persona»?), non è nemmeno un semplice trompe-l’œil, una pura allegoria della coscienza dell’io (la distanza da Petrarca non si misura solo rispetto al Canzoniere, ma anche rispetto al Secretum cui pure Una sostanza sottile finisce per assomigliare un po’). La figlia è un’istanza dialettica, di alterità (per anagrafe e genere) ma anche di confidenza; è mediatrice di un’eredità intellettuale ed esistenziale. È a lei che lo scrittore dà conto delle proprie ragioni e idiosincrasie; su Irene convergono anche le reazioni ai molti interlocutori che interpellano e sollecitano l’autore, chiedendogli di raccontarsi. E qui, in uno dei romanzi suoi più narrativi, Cordelli in effetti si racconta; ma lo fa da una prospettiva obliqua, svuotando di senso le indulgenze e le ossessioni dell’«io» ipertrofico: «Sta di fatto – e i miei amici, o nemici, ne saranno fieri, sto raccontando, sto scomparendo in un racconto fin troppo personale, loro non vogliono altro, così dicono, non so perché».

Situazione ricorrente è la malattia, anzi l’infermità come conseguenza di un cedimento fisico; l’esperienza autobiografica anche in questo caso vale come oggetto di elaborazione prospettica nel quadro della narrazione. Nel libro, la degenza diventa infatti un’ellissi che non può essere riempita di fatti, ma da cui fluiscono le memorie dell’età trascorsa: più che un tema, è un dispositivo che permette al soggetto di percepirsi nel tempo, benché libero dalle convenzioni cronologiche di una narrazione mimetica. «Ma questa è la prova più difficile. Tramutare noi stessi in tempo», scriveva Cordelli ancora in La democrazia magica. Anche per questo, la narrazione oscilla dal presente al passato: all’itinerario provenzale di François e Irene si congiunge la memoria di altri viaggi nella stessa regione; al ricovero recente del protagonista si somma il ricordo di altre malattie.

Si capisce che la posta in gioco nel saggio del ’97 è ancora sul piatto: il contesto, il pubblico, lo stesso genere ‘romanzo’ sono in parte cambiati, ma la direzione di fondo è rimasta quella intuita allora. Salvo eccezioni, l’autorità del mimetico nel romanzo si conferma nelle sue varie declinazioni, dalla narrazione storico-epocale all’autofiction. «Oggi è tutto diverso, gli scrittori che vogliono dire la verità la dicono, si dipingono come sono, se sono ladri confessano d’essere ladri. Se sono omosessuali dicono d’essere omosessuali», osserva François. L’alto grado di consapevolezza implicato dai racconti autofittivi può illudere lo scrittore che la coscienza basti al riscatto di sé e dell’opera, ma «quasi sempre ciò che conta, conta per come è scritto, per l’anima sua».

Alla verità del romanziere, Cordelli oppone il pensiero narrante dello scrittore, alla storia la riflessione drammatizzata: romanzo, saggio, lirica, democraticamente aggregati. La lirica lascia qualche reminiscenza nella scrittura e nutre discretamente lo stile di Cordelli, che anche a questo livello non cerca effetti mimetici. Ma alla forma della poesia, o della musica, Una sostanza sottile si accosta soprattutto per la modularità; il libro è infatti scandito in ottantuno brevi capitoli (tanti quanti ve ne sono nell’antico Tao Te Ching di Lao-Tzu, evocato nel racconto), ‘strofe’ di tre pagine, simmetriche anche nei titoli formati da due-tre correlativi emblematici. Questo tipo di architettura e scansione (comuni anche a libri precedenti di Cordelli, come Guerre lontane o Proprietà perduta) sono risorse che danno al libro un ordine interno, che non ha bisogno di imitare una cronologia o una geografia esteriori. Spazi ed eventi vengono anzi riconfigurati, reinventati nel racconto; in tal senso, Una sostanza sottile è anche un romanzo ‘picaresco’ (nell’accezione che il termine ha in La democrazia magica): «il mondo non è altro che pensiero, il pensiero non è che mera superstizione, il mondo può essere solo inventato».

La fedeltà di Cordelli alla propria riflessione garantisce la continuità di struttura tra gli altri suoi libri e Una sostanza sottile; fedeltà che reagisce al contesto, rinnovandosi insieme a esso nel tempo. I referenti storico-politici sono meno espliciti che in Pinkerton o Il Duca di Mantova; ma Una sostanza sottile è comunque una scrittura di opposizione, più privata ma al fondo ancora politica: opposizione all’ideologia totalizzante che rappresenta il mondo come una forma esterna su cui il singolo proietta il proprio destino e si appaga intellettualmente o materialmente in questa proiezione. La ‘sostanza sottile’ del titolo, al di là della sua ascendenza shakespeariana (Romeo e Giulietta, atto I, scena IV), non definisce una formula, non esprime una verità: è sottile, appunto, ma è una sostanza, un quid profondo che sta sulla soglia tra gli elementi che entrano in una relazione di reciproca necessità, come yin e yang nel Tao: l’io e il tu, il presente e il passato, al limite la vita e la morte.