Per Joan Mirò, l’immaginario non doveva essere impalpabile, ma provocare sensazioni fisiche. Anche guardando il cielo e infilandosi fra le stelle, la terra rimaneva un riferimento che non andava mai perso di vista. Per questo era un sognatore eccentrico, molto «concreto»: ha popolato le sue tele con omini marziani, fiori volanti, nuvole e prati messi sullo stesso piano, mescolando aria e zolle.

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Una volta sola rimase funambolicamente sospeso tra le sue creature, dimenticando la forza di gravità «famigliare» che lo attraeva verso altro: fu quando disse no a una carriera di contabile, scegliendo l’arte e le sue eterne «distrazioni». Nessuna tentazione naïf, comunque: Mirò – nonostante la scelta di campo che lo conduceva fra gli scarabocchi dell’infanzia, in mezzo ai graffiti delle caverne o ancora nei meandri di menti un po’ svanite (Art Brut) era un artista consapevole, uno studioso puro di se stesso e del linguaggio che scaturiva dalle avanguardie. Joan Miró a Villa Manin. Soli di notte è la mostra in programma a Villa Manin di Passariano (Udine) che si aprirà a partire da oggi (visitabile fino al 3 aprile 2016, catalogo Skira), dando forma a un progetto curatoriale originale di Elvira Cámara López e Marco Minuz.

La lente d’ingrandimento è qui tutta focalizzata sull’ultimo periodo dell’artista catalano: 250 le opere presentate, tra dipinti, sculture, disegni, schizzi, per la maggior parte provenienti dalla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Maiorca e dalle collezioni degli eredi – con alcune anteprime -, una serie di documenti e una gran messe di oggetti personali. C’è anche una carrellata di ritrattistica d’eccezione: cinquanta scatti fotografici su Mirò usciti dalle macchine di «reporter» come Bresson, Mulas, Brassaï, List, Man Ray.

Trent’anni trascorse Mirò in quell’atelier luminoso di Palma di Maiorca (amatissimo luogo di affetti e prima ancora rifugio anti-nazista), dal 1956 al 1983, anno della sua morte. E proprio lì ringiovanì la sua arte, mutandone la tecnica, le forme e gli obiettivi. Se nello studio Son Boter si dedicava alla scultura e segnava sul muro appunti e progetti (in mostra c’è una ricostruzione della «stanza rossa» in cui l’artista sostava in raccoglimento), Son Abrines era una fucina del pensiero dove rimanere in una solitudine ascetica. Era lo spazio dello zampillare allucinatorio, l’orto («lavoro come un giardiniere o un vignaiolo») con le idee da potare e da arare con il gesto, un angolino terrestre dove via via il colore scelse di sparire nel nero.