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C’è qualcosa di simile nelle vicende di Carlo V e di Andrea Doria. Fin dal momento in cui i loro destini si sono incrociati, l’intesa tra i due è stata forte ed è proseguita con un’intensità slegata dalla pura occasionalità. Il loro carteggio è fitto, l’Imperatore e il Principe sono due individui che vivono esperienze estreme. Le loro vite si assomigliano. Tutta la loro esistenza è tinta dei colori del sangue; il loro colloquio con la morte è costante e nessuno dei due la teme. Per Andrea la solitudine è stata fin dalla gioventù una scelta di vita. Per Carlo una condizione sine qua non, che alla fine ha assunto i contorni di una soluzione esistenziale quando il suo grande impero ha preso i confini di una piccola casa vicino a un monastero. Ma gli spazi si sono ristretti anche per il capitano Doria, che ora trascorre tutto il tempo che gli rimane nel suo ben palazzo».

Con queste parole si avvia il capitolo conclusivo di Andrea Doria (Salerno editrice, pp. 252, euro 22), l’ultimo libro di Gabriella Airaldi: allo stesso tempo un ampio profilo biografico del grande ammiraglio ligure e un affresco del periodo storico nel quale egli visse, divenendone protagonista di primo piano.
Il Cinquecento, il secolo d’oro dei genovesi, è stato cruciale per la storia d’Europa. Da una parte le guerre di religione, e sotto e dietro quelle altri conflitti; dall’altra, il dominio del Mediterraneo, nel quale entrava anche in gioco l’impero ottomano; e oltre, la conquista del Nuovo Mondo e delle rotte che portavano all’Oceano indiano. Genova e Andrea Doria, membro di una delle più grandi famiglie della città, finiscono per essere centrali in molto fra queste vicende.

Un punto di inizio importante può esser fornito dagli anni successivi alla lega di Cognac del 1526, quando i francesi avevano stipulato un’alleanza antimperiale con Clemente VII (Giulio de’ Medici), con i Medici stessi, con gli Sforza, con il re d’Inghilterra. L’imperatore rispose al patto con inaudito furore: si sentiva tradito da quei principi cristiani che lo attaccavano alle spalle nel momento stesso in cui il Sultano turco Solimano I il Magnifico stava operando una dura offensiva e, conquistate Belgrado e quasi tutta l’Ungheria, aveva sconfitto nella battaglia di Mohàcs (28 agosto 1326) il re di Boemia e d’Ungheria Luigi Il Jagellone, caduto sul campo. Un corpo di spedizione di 14mila lanzichenecchi calò in Italia, travolse a Borgoforte presso Mantova le truppe della lega, e il 6 maggio 1527 giunse a Roma che sottopose al saccheggio mentre il papa si chiudeva in Castel Sant’Angelo.

Il «sacco di Roma» costernò tutto il mondo cristiano. Immense ricchezze e preziosi tesori d’arte andarono perduti. L’imperatore ai affrettò a dolersi dell’accaduto e ad addossare la responsabilità all’iniziativa di truppe indisciplinate cui da troppo tempo non veniva corrisposto il soldo. A questo punto si vide quanto debole e ambiguo fosse stato l’accordo preso a Cognac. I fiorentini insorsero, si scrollarono di dosso il giogo mediceo e resuscitarono la repubblica; gli Estensi si ripresero Parma, Piacenza e Ferrara tolte loro dal papa; Venezia si gettò sui territori pontifici occupando i porti di Cervia e Ravenna; Genova, che fin lì sveva fornito alla lega una forza marinara all’altezza di quella imperiale, passò al campo di Carlo V grazie al clamoroso voltafaccia dell’ammiraglio Andrea Doria. Una svolta per l’Europa, insomma, così come per il Doria che a quel punto non era certo un ragazzino: nato nel 1466, aveva trascorso i suoi primi sessant’anni come inquieto aristocratico e come soldato; un percorso assai ben delineato nella prima parte del libro. La riconversione al partito imperiale lo proietterà verso nuove mete, e giustifica ampiamente il rapporto tra lui e Carlo V così centrale nella riflessione di Gabriella Airaldi.

L’adesione al partito filoimperiale, come detto, lo proietta ancor di più in quel Mediterraneo che per i genovesi era l’elemento naturale; da allora, egli sarebbe stato uno dei più diretti e accaniti nemici del cosiddetto «Barbarossa», il pirata turco Khair ed-Din: un’ostilità che peraltro si sarebbe manifestata e sviluppata in un modo molto speciale, dal momento che i due appaiono a tratti quasi speculari, pur avendo origini e un vissuto differenti. Ma rispetto e comprensione fra i vecchi rivali erano del tutto naturali in quel contesto; senza dimenticare che per Genova e i genovesi l’Islam arabo e poi quello turco erano interlocutori e partner commerciali consueti; benché talvolta anche nemici.

Andrea Doria si legge come un romanzo, perché romanzesca è la vicenda del protagonista, ma è anche indagine seria sull’azione di un uomo in un contesto affascinante, geograficamente e culturalmente ampio. La funzione della biografia, d’altra parte, non può ormai esser quella di parlare di una singola esistenza che, per quanto importante, resta individuale. Il suo interesse è riposto nella capacità di rapportarla alle micro e alle macrostorie dell’epoca che attraversa. Come, appunto, nei migliori romanzi.