Una giornata di inizio agosto, poco prima della inaugurazione del nuovo viadotto, e le strade di Certosa, in Valpolcevera, sono deserte, mentre appaiono, quasi all’improvviso i murales sulle facciate delle case. Ritraggono motivi geometrici e floreali ad eccezione dell’omaggio all’attore comico genovese Paolo Villaggio nella postura di Fantozzi, forse a riecheggiare una simbiosi con la storia del quartiere. Le saracinesche dei negozi sono abbassate, il benzinaio appena prima del viadotto è ancora chiuso, come Vergano che, dal 1956, riforniva le imprese edili con i materiali da costruzione e non riaprirà più. Tutto intorno un’aria di desolazione e abbandono che perdura dal 2018.

IL NUOVO VIADOTTO non si vede, sovrastato dagli alberi di Via Fillack, non ha il carattere del Morandi, che era un inno alla audacia ingegneristica, vero e proprio monumento moderno all’ottimismo del boom economico. Sono passati due anni da quel maledetto 14 agosto 2018 quando una intera comunità ha compreso la sua fragilità umana e sociale con il crollo di una infrastruttura pubblica che non doveva crollare. Mesi intensi alla caccia del colpevole, ovviamente l’indiziato principale è stato il progettista, l’ingegnere Riccardo Morandi, autore di grandi ponti sperimentali, che già negli anni ottanta del secolo scorso aveva posto l’attenzione sul degrado, purtroppo una voce nel vuoto dello Stato, allora ancora gestore della rete autostradale.

Intanto Genova ha continuato a sprofondare nella sua superbia, guardando al passato glorioso senza progettare il domani. Ma il crollo, con la dolorosa perdita di 43 persone ignare di quello che la sorte stava loro preparando, ha determinato nei sopravvissuti e negli abitanti di Certosa uno smarrimento e un profondo senso di sradicamento. In poco tempo un quartiere operaio, le cui case erano state costruite per i ferrovieri, si è ritrovato senza futuro.

ALL’INIZIO DEGLI ANNI sessanta molti ferrovieri provenienti dal sud hanno trovato casa in quei casermoni anonimi di Via Porro. È accaduto anche alle sorelle Mimma e Anna Rita Certo che incontro nella loro casa del Carmine, nel centro storico genovese, che avevano comprato anni fa, quasi a cercare rifugio altrove.

«Noi siamo andate a vivere a Certosa nel 1960 – racconta Mimma – il nostro condominio era per i dirigenti delle ferrovie, aveva l’ascensore che, invece, le altre case non avevano. Venivamo dalla Basilicata, profondo sud, dove abitavamo in un casello ferroviario, con la luce ma senza acqua corrente. Così venire a Genova con tutte le comodità del caso, ci sembrava di vivere in una reggia… Quando il ponte è stato inaugurato, nel 1967, avevo vent’anni e molti di noi erano contenti di vivere sotto un’opera d’arte come era considerato il lavoro di Morandi. Però a mio padre – continua – non piaceva avere il ponte sulla testa». Proprio da queste parole semplici ma piene di sentimento si può comprendere il rapporto che Certosa e la valle avevano con il loro “ponte di Brooklin”, come lo chiamavano i genovesi.

«Nei quartieri, in particolare negli ex-quartieri operai – scrive il sociologo urbano Agostino Petrillo – in cui predominavano valori culturali legati all’ideologia del lavoro e dell’emancipazione collettiva attraverso il lavoro, i processi intervenuti, e in particolare la deindustrializzazione, hanno significato una radicale modificazione delle modalità di vita e dei processi di socializzazione, con una frattura generazionale all’interno delle singole famiglie e più in generale l’innescarsi di un processo di desolidarizzazione che è intervenuto a livello dei rapporti tra i singoli nuclei».

Questo è avvenuto in Valpolcevera dove per decenni si sono concentrati quartieri collinari obsoleti, nella loro concezione, come la “diga” che si oppone trasversalmente al paesaggio, esito di una becera speculazione edilizia pubblica a fine settanta, o la raffineria Garrone a Bolzaneto oggi riconvertita in un quartiere residenziale e in un centro commerciale. Tuttavia sembra che questa parte di città sia rimasta ancora municipio autonomo prima della unificazione della Grande Genova avvenuta nel 1926. Infatti una parte di Genova non ha condiviso il lutto del crollo, proprio perché la Valpolcevera è sempre stata una servitù dell’imprenditoria pubblica e privata.

I quartieri “bene”, che tuttavia nella iconografia pittorica secentesca erano rappresentati fuori le mura in campagna, hanno mal sopportato il crollo, lo hanno sentito distante. Non la politica di centrodestra al governo di Comune e Regione che ha costruito artificiosamente una narrazione divergente rispetto alla realtà, una narrazione mediatica infarcita di alcune parole ricorrenti come identità, orgoglio, fretta, efficienza. Parole per dimostrare a loro stessi e agli elettori le loro presunte capacità nei confronti degli “altri” del centrosinistra che per un trentennio ha governato tutto.

OGGI LA VALPOLCEVERA ha la possibilità di rinascere se realisticamente si darà seguito al parco progettato dal gruppo Stefano Boeri Architetti, Metrogramma Milano, Inside Outside | Petra Blaisse, risultato vincitore del concorso indetto dal Consiglio Nazionale degli Architetti e dal Comune. Concorso che sarebbe stato corretto adottare anche nella scelta del progettista del nuovo viadotto, anziché riprodurre logiche rinascimentali tra il Principe (il commissario-sindaco Bucci) e il suo Architetto (Renzo Piano). Ma Genova non rinasce miracolosamente con il nuovo viadotto identitario, dal nome poco originale Genova San Giorgio. I problemi di una città in declino non scompaiono. Sono molte le questioni aperte, dai Piani Urbanistici Operativi, esito di contrattazioni pubblico-privato per fare speculazioni edilizie in cui il profitto è unicamente del privato, fino ai quartieri dimenticati e allo sviluppo delle infrastrutture.

Il crollo del Morandi poteva consentire una riflessione sul progetto urbano a larga scala, questo non è avvenuto per una miopia politica preoccupata di gestire il presente e non programmare il futuro.