L’alienazione nel call center ti accompagna per tutta la giornata, insieme al rumore degli operatori amplificato nella sala, perché se sei un operatore outbound devi parlare ad alta voce, sicuro di te, speranzoso di importi con chi è all’altro capo del telefono, che se non ti manda subito a quel paese è un potenziale cliente, uno al quale puoi vendere, uno che potrebbe incrementare il tuo magro compenso di operatore.
L’alienazione è insidiosa anche quando hai lasciato il posto di lavoro, continua imperterrita la sua azione di disturbo anche quando si è fuori dalla sala, a casa, dovunque, anche se non hai più quelle maledette cuffiette addosso. L’alienazione la senti come un disagio continuo, a volte crescente, che colpisce il tuo corpo e la tua esistenza con la pervicacia della goccia cinese.
Rachele è una studentessa di scienze del servizio sociale che ha cominciato per caso a lavorare nei call center. Era in cerca di lavoro ed ha superato le selezioni. Adesso, a tre anni di distanza, è assunta come inbound (assistenza) ma ha anche una buona esperienza nel lavoro di vendita (outbound). Si tratta di una buona esperienza dal momento che parliamo di un’operatrice portata per il lavoro relazionale e comunicativo, che settimanalmente riusciva a chiudere mediamente il doppio dei contratti dei suoi colleghi. Come dice lei stessa: «Nella gestione della telefonata ero vincente perché vendevo, vendevo tanto. Il responsabile dell’azienda mi ha pregato di rimanere, ma poi non ce l’ho fatta». Dopo le selezioni Rachele ha fatto sei mesi di formazione o, meglio, un mese di formazione vera e propria e cinque mesi di lavoro pagato con i soldi regionali per la formazione. Ma un mese può anche bastare perché le “abilità” richieste (per quanto ostinatamente sottolineate nei corsi di formazione e formalizzate in linguaggi standard e in “script” da seguire pedissequamente) derivano dalle esperienze di vita dei singoli operatori, dal fatto di conoscere e saper fare “il gioco delle parti”: «Nel momento in cui ti capita il cliente difficile, o anche solo un po’ così… allora devi essere, non è più la preparazione che hai, sicuramente una buona preparazione ti aiuta, però se ci sai giocare, sai essere un po’ diplomatico il cliente lo chiudi anche contento… ti insegnano a fare la gestione della telefonata, quindi io che sono un po’ più scaltra, un po’ più furba, un po’ più diplomatica, un po’ più col saper fare allora riesco a fare una buona gestione della telefonata». Di queste qualità, di questo saper fare e saper giocare, si nutre un call center, che è organizzato per appropriarsi e valorizzare capitalisticamente questi saperi col minor grado di conflitto possibile. A tal fine è messa in piedi una macchina organizzativa totalizzante, nella quale gli operatori (e le loro qualità intrinseche) sono imbrigliati in piattaforme informatiche ed in spazi dove si esercita una consistente attività ideologica, che inizia nei corsi di formazione e prosegue quotidianamente sul posto di lavoro (controllo dei team leader, riunioni con responsabili, eccetera). In questo senso, il call center ha una fisionomia particolare, fa convivere la vecchia catena taylorista (oggi informatica) con il “grande fratello” della comunicazione: il corpo e la mente sono completamente coinvolti nell’organizzazione d’impresa, la quale detta i tempi e i modi della prestazione lavorativa e diffonde la novella del “bravo operatore” che, competitivo e vincente, potrà raggiungere, se lo vorrà, «favolose performance e quindi valorosi obiettivi di vendita e guadagno». L’organizzazione del call center, in altri termini, non è volta solo al controllo degli operatori ma mira direttamente alla “produzione” degli stessi. Le pratiche attraverso le quali ciò avviene sono ambigue e contraddittorie, eppure sono spesso efficaci nel “modellare” le condotte, nell’inculcare “valori che orientano comportamenti”. Non è un caso che molti degli operatori outbound incontrati nell’ambito dell’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria, pur riconoscendo le mille assurdità aziendali nelle quali sono immersi; pur criticando a volte le tecniche di controllo e l’organizzazione del lavoro in generale; pur denigrando aspetti dell’ideologia ufficiale che viene loro propinata, non pare che riescano ad opporre una significativa resistenza: la paura di perdere il lavoro, in un contesto dove la valutazione delle performance e dei diversi stati soggettivi è continua, favorisce la plasticità dei soggetti dinanzi agli strumenti aziendali di assoggettamento.
Il medico del lavoro Michele Piccardo ha partecipato ad una importante ricerca sullo “stress correlato” nei call center liguri. Questo, in sintesi, un suo commento: «Gli operatori di call center vengono da un mondo moderno e tecnologico dove le persone continuano ad ammalarsi di lavoro. Per evitare o almeno ridurre questi danni probabilmente sarebbe sufficiente far sì che sia il lavoratore a governare e utilizzare la tecnologia invece del contrario». Effettivamente è un lavoro che avviene in stabilimenti dove la tecnologia governa e utilizza gli operatori. Tale governo e utilizzo è fortemente alienante perché deve intervenire sulla mente e sul corpo (dove può lasciare segni indelebili): da quando sei “loggato”, ossia da quando entri in sala e ti siedi alla postazione di lavoro, ti devi attenere completamente ai dettami aziendali e, a tal scopo, sei costantemente controllato e valutato. Dopo qualche mese ci si può trovare emotivamente esausti, in uno stato di burnout. Burnout vuol dire «non farcela più», «consumarsi», secondo la traduzione letterale, «esaurirsi» e «scoppiare» secondo quella figurativa. Lo stato di burnout è esemplificativo di quell’ammalarsi al lavoro di cui parla Piccardo, è una condizione di insoddisfazione e irritazione quotidiana, di prostrazione e svuotamento, di delusione ed impotenza. Il burnout è apatia, insoddisfazione e infelicità lavorativa: è figlio dello stress vissuto dagli operatori che si affaticano a mantenere il controllo.
Cosi Rachele continua il suo racconto, motivando l’abbandono del call center nonostante lei fosse “vincente”: «Non ce l’ho fatta perché è un lavoro che mi porta proprio finita mentalmente, che mi logora dentro… mi rendo conto che quando finisco di lavorare inizio ad avere momenti di devianza che non gestisco più. Mi innervosisco per nulla, soprattutto se mi squilla il telefono… e allora anche se sono portata è un lavoro che non mi piace fare». Più volte, nell’incontro d’inchiesta che l’ha vista protagonista, Rachele ha detto che nel call center «ci si sente come l’ultimo giorno di scuola, tutti svogliati, demotivati… è un’emozione che ci fa sentire come se ci avessero messo fuori posto, ed è così». Più avanti chiarisce la natura di tali emozioni: «Dopo un po’ lo stato d’animo cambia, oggi lo reprimi questo stato d’ansia, domani lo reprimi, dopodomani esci pazza! Uno per logorarsi non è che deve lavorare sotto la pioggia oppure deve tagliare qualcosa, uno si logora anche così».
L’alienazione non è soltanto il risultato del processi di sfruttamento delle qualità sociali degli operatori, ma è anche combustibile che favorisce la cattura (e valorizzazione) di tali qualità e che aiuta, in tal senso, la riproduzione dell’intero processo lavorativo. Dal punto di vista degli operatori l’alienazione è una cappa che offusca e riempie, uno stato d’animo negativo che ti accompagna anche quando non sei loggato, per tutto il giorno!
La storia di Rachele, come quella di molti altri, sono state discusse negli incontri d’inchiesta, ai quali hanno partecipato anche diversi operatori che non sono diventati inbound, ma hanno scelto la “fuga dal call center” «per non restare intrappolati in un lavoro che ti logora». Per autodefinizione si sono “liberati”, hanno eliminati la cappa in questo modo, abbandonando il lavoro. Nonostante le ristrettezze economiche, e il forzoso ricorso al cosiddetto welfare familiare, dicono convinte che «viviamo molto meglio oggi, abbiamo problemi economici ma stiamo meglio dentro di noi, prima non ce ne rendavamo conto ma vivevamo peggio, era diventato un circolo vizioso nel quale eravamo rimaste incastrate, eravamo ad un passo dall’esaurimento».
Dinanzi all’incubo di rimanere schiacciati si scappa, magari con una sosta dal sindacato, prima d’allora perfetto sconosciuto, o da qualche avvocato nella speranza di racimolare una parte di maltolto.
Il lavoro outbound è generatore di malessere psico-fisico. Chi si trova nelle situazioni appena descritte tenta di sottrarsi (ancora individualmente o in piccoli gruppetti) al dominio alienante dell’organizzazione d’impresa. In una situazione retributiva come quella calabrese, questo avviene quando la lucidità degli operatori ha il sopravvento sul frastuono dei messaggi aziendali, quando – come affermano Fumagalli e Morini nel loro ottimo Homo Precarius (Millepiani, 37) – iniziano a rendersi conto della propria alienazione.