Uno dei principali nodi riguardanti tanto lo sviluppo umano e sociale dell’Italia quanto la sua capacità di produrre e ridistribuire ricchezza, è quello della pubblica amministrazione. Un incipit del genere lo avremmo potuto trovare anche in un articolo scritto venti o anche trent’anni fa, a riprova che il problema non è solo strutturale ma bisognoso di uno sguardo prospettico. In questa direzione si muove il recente lavoro di Guido Melis Fare lo Stato per fare gli italiani (il Mulino, euro 24). Ci sono tre aspetti che emergono dal libro: il primo riguarda il rapporto tra Amministrazione e sviluppo economico.

Sebbene non siano presenti saggi specificatamente dedicati a questo tema, le interpretazioni proposte da Melis suggeriscono diffusamente che l’amministrazione italiana si sia sviluppata in modo complementare, come una stampella, rispetto alla crescita economica del paese – a differenza di quanto avvenuto in Francia o in Germania. Seguendo e riproducendo le sue contraddizioni (prima tra tutte quella caratterizzazione dualistica che ha originato, dai tempi di Giolitti, la sua nota meridionalizzazione) senza mai farsi soggetto attivo. Cosa che consente di comprendere il sostanziale fallimento di ogni intento programmatore dello sviluppo italiano e la cronica inefficienza della pubblica amministrazione.

Il secondo aspetto concerne l’inerzia nella riproduzione ormai secolare delle culture organizzative, a partire da un formalismo giuridico e burocratico che sfocia nell’autoreferenzialità e apre la strada, di fronte a ritardi e rigidità istituzionalizzate, alla continua ricerca da parte dei soggetti economici della «scorciatoia» contra legem o della forzosa deviazione dell’amministrazione verso i propri interessi. Infine, dal libro emerge la progressiva perdita di prestigio che caratterizza i funzionari e i dirigenti pubblici, strettamente legata all’ormai consolidata perdita di autorevolezza dello Stato: da una situazione di sostanziale omogeneità sociale e di integrazione nelle classi dirigenti del paese, che caratterizzava gli alti funzionari del periodo postunitario, si passa ad una situazione di emarginazione, di subordinazione rispetto al potere politico (complice anche la recente introduzione dello Spoil System dei vertici amministrativi), di collateralismo con gli interessi privati.

Ciò che a chiusura del libro Guido Melis sottolinea è la «solitudine del riformismo amministrativo italiano»: necessario come pochi altri, esso è stato più spesso appannaggio degli studiosi che delle forze politiche, scarsamente interessate ad affrontare e vincere la «madre di tutte le battaglie» riformiste, tanto per convinzione ideologica, quanto per mera convenienza elettorale e speculativa. L’arretratezza dello Stato italiano e la degradazione del senso della «cosa pubblica» non possono dunque essere ridotti (ideologicamente) al lassismo dei dipendenti pubblici ma vanno ricercati, come aiuta a fare il libro di Melis, nell’operare di una molteplicità di meccanismi di dominio, largamente consolidatisi nella nostra storia unitaria.