Solo pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario dell’attacco all’Hyper Cacher della Porte de Vincennes, avvenuto nel gennaio del 2015 a Parigi dopo quello alla redazione di Charlie Hébdo, e che alla matrice jihadista del primo vedeva aggiungersene anche un’altra, esplicitamente antisemita, la rabbina Delphine Horvilleur, esponente del Movimento ebraico liberale di Francia ha affidato ad un’intervista a Le Monde le sue considerazioni sulla «solitudine degli ebrei».

HORVILLEUR ha ricordato come le cronache transalpine abbiano segnalato di recente l’emersione di una nuova minaccia e l’accrescersi di una pericolosa deriva. All’antisemitismo dell’estrema destra che vanta nel Paese una solida tradizione che rimanda perlomeno all’affaire Dreyfus, si sono andati affiancando via via un odio crescente che lambisce le banlieue – testimoniato, tra le molte vicende, dal sequestro e l’assassinio del giovane Ilan Halimi da parte della cosiddetta «gang des barbares» -, come frange dei movimenti sociali – si veda al riguardo l’aggressione ai danni di Alain Finkielkraut da parte di alcuni gilets jaunes -, le tesi degli Indigènes de la République contro gli ebrei considerati come «complici dell’oppressione dei bianchi» o gli svarioni del leader de La France insoumise Jean-Luc Mélenchon che ha detto di volersi opporre a quella che giudica una generale «genuflessione di fronte agli editti dei comunitaristi del Crif (l’acronimo che identifica l’unione delle comunità ebraiche francesi, nda)».

«Come segno dei tempi – ha spiegato la rabbina progressista -, sembra stia emergendo una sorta di lingua antisemita che circola per il mondo. E che è raccolta da persone che hanno progetti politici fra loro anche molto diversi ma che improvvisamente la parlano all’unisono, la fanno echeggiare». Eppure, ha aggiunto, «negli ultimi anni, quando gli ebrei lo hanno sottolineato, spesso gli è stato detto: “state esagerando, questi sono casi specifici”. E nel rifiuto di pensare più in generale al fenomeno, abbiamo rafforzato la solitudine degli ebrei. Se però non vuoi aprire gli occhi e tracciare una linea tra i diversi punti sulla mappa, sei condannato a ripetere tutto da capo. Nelle vicende che cito l’antisemitismo non è mai puramente aneddotico».

Questo lo spunto da cui muovono anche le Riflessioni sulla questione antisemita di Horvilleur che Einaudi pubblica in vista del Giorno della Memoria (pp. 100, euro 14, traduzione di Elena Loewenthal). Se è la comparsa, in un contesto che intreccia da tempo globalizzazione e crisi sociale, di un nuovo antisemitismo per certi versi «globale», sia in termini geografici che ideologici, a fare da sfondo all’indagine, è invertendo un approccio spesso applicato al tema, si pensi al tentativo operato tra gli altri da Sartre di «leggere» l’ebreo nello sguardo dell’antisemita, che opera Horvilleur scegliendo di esplorare il fenomeno attraverso i testi sacri, la tradizione rabbinica e le leggende ebraiche.

L’ESITO offre molti possibili spunti di dibattito, come la disamina della «femminizzazione dell’ebreo» spesso operata dai testi antisemiti, ma sono le considerazioni generali che vengono avanzate ad offrire un’inquietante immagine della situazione. «L’ebreo è immancabilmente un po’ troppo se stesso e un po’ troppo un altro. Ha la faccia tosta di volersi assimilare oppure di rivendicare una sovranità altrove; di non voler andare via o non voler restare». Perciò, nel lessico dell’antisemitismo è spesso additato simultaneamente per una colpa e per il suo contrario. «L’ebreo – sottolinea Horvilleur – è stato giudicato vuoi troppo ricco vuoi di campare di espedienti, a scrocco del paese. Vuoi troppo rivoluzionario vuoi troppo borghese. È stato percepito come una minaccia al ‘sistema’, ma anche come la sua incarnazione. Gli è stato imputato di camuffarsi o di essere troppo appariscente; di mescolarsi al punto di non essere più chiaramente identificabile, quando non di difendere l’endogamia e starsene per conto suo».

LA CONSTATAZIONE che ci si trovi di trovi di fronte ad una dimensione «elastica» della nozione dell’odio antisemita è al centro anche del nuovo saggio della storica statunitense Deborah E. Lipstadt, Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani (Luiss, pp. 258, euro 20, traduzione di Chiara Veltri, postfazione di Anna Foa) – che sarà presentato lunedì a Roma, alle ore 17 alla Sala delle Colonne della Luiss, Viale Pola 12.
Lipstadt, nota per aver vinto nel 2000 una storica causa legale contro il negazionista David Irving, analizza il ritorno dell’odio antiebraico in un contesto che vede anche il diffondersi del razzismo e dei pregiudizi nei confronti dei migranti e di ogni minoranza.

Dall’America di Trump alla Gran Bretagna, dove il virus sembra aver toccato anche i laburisti, dal mondo islamico al suprematismo bianco, la storica ammonisce sui rischi di un ritorno sulla scena globale dell’antisemitismo proprio mentre gli ultimi testimoni diretti della Shoah ci stanno lasciando. «Come un incendio appiccato da un piromane, l’odio infervorato e una visione complottista del mondo colpiscono ben al di là del loro obiettivo». Come a dire che il nuovo antisemitismo non minaccia solo gli ebrei, ma l’idea stessa di convivenza civile e il futuro della democrazia.

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Se Hannah Arendt incontra il burocrate dello sterminio

«Quanto è ingenua, lei, Hannah. Si vede che a quello che dice crede davvero. Sarebbe commovente se non fosse che non ha alcun senso. Mi dice che verrà un ‘capitolo nuovo’? (…) Apra gli occhi: non c’è bisogno di aspettare, il tempo non serve. Il mondo gira la faccia dall’altra parte nell’attimo stesso in cui vede il male. Lo rifiuta, non vuole vederlo. L’umanità di cui lei parla… L’umanità è pigra. Finge di non vedere, tace, dimentica all’istante».
Il rumore dei treni, le grida e i pianti, perfino i colpi di fucile: ad un certo punto ogni suono si placa, fino a un lungo silenzio mortale. È in uno spazio neutro, illuminato da neon, forse un bunker o una stanza da interrogatori che l’incontro ha luogo. In Eichmann, dove inizia la notte (Fandango, pp. 114, euro 12) Stefano Massini mette l’una davanti all’altro Hannah Arendt e Adolf Eichmann in un lungo, impietoso confronto. La brutalità e lo squallore dell’uomo che supervisionò l’intera macchina dello sterminio nazista emergono pagina dopo pagina in quello che è anche il racconto di una brillante carriera nazista dove l’odio eletto a ideologia di dominio si intreccia con l’ascesa sociale nel segno di un conformismo omicida. La via tedesca al genocidio appare come un mostro che inghiottiva persone mentre faceva la fortuna di altri: gli industriali, l’élite delle SS, i tanti che da quella tragedia trassero anche piccoli e inconfessabili benefici.
«Io non ho ucciso un solo essere umano. Io ho diretto treni, costruzioni di baracche, piani edilizi, permessi, delibere». Nelle parole di Eichmann, che Massini ha ricostruito a partire dai verbali del processo di Gerusalemme e dai testi degli storici, compresa la stessa Arendt, come già aveva fatto per il caso della Lehman Brothers, affiora il ritratto di un lucido burocrate dell’assassinio di massa, figlio di un’epoca storica come dell’antisemitismo. Ma anche il volto di un’inquietante «fascismo della porta accanto», pronto a riaffacciarsi quando «il potere» torna a significare che si può disporre di una vita che non è la tua.

gu. ca.

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L’infanzia smarrita nel Blocco 31 e la «chimica delle parole» di Levi

Un libro che insegue la storia, le paure, la durezza della vita quotidiana e i difficili gesti di ogni giorno per assicurarsi la sopravvivenza dei cinquecento bambini che vissero nel Blocco 31: è Il maestro di Auschwitz di Otto B Kraus (Newton Compton editori, pp. 288, euro 9,90, traduzione di Laura Miccoli) in cui l’autore narra quei giorni dolorosi basandosi sui diari di Alex Ehren (in realtà frutto di memorie collettive) che aveva nascosto in un buco scavato nel terriccio». Ehren decise di sfidare il regime nazista infrangendo le regole: insegnava ai piccoli allievi fra le baracche e sognava di riconquistare la libertà alla prima occasione. Nato nel 1921 a Praga, lo scrittore Otto B Kraus tornò nella sua città da solo, allampanato sopravvissuto, avendo perso i genitori e il fratello. Ehren invece morì dopo un tentativo di fuga, ucciso da una sentinella.
L’infanzia strappata via di ebrei, slavi, rom e disabili è al centro anche del libro cartonato che raccoglie diverse testimonianze edito da Sonda. I bambini raccontano la Shoah (a cura di Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano, pp. 128, euro 14, con una prefazione di David Grossman) unisce più racconti. C’è anche la vera storia di Ela e Marian Kaminski che dopo un percorso esistenziale a ostacoli si incontrano e innamorano. Sarah Kaminski è la loro figlia: a lei è affidata «La favola amara di Lodz». Feltrinelli invece propone le peripezie di due bimbi ungheresi (scritta da Luca Cognolato e Silvia Del Francia), privati dei genitori e alla ricerca di salvezza: una vicenda la loro che intreccia quella di Giorgio Perlasca (pp.157, euro 12). L’orrore fisico dei campi di sterminio torna anche con Primo Levi di cui Emons audiolibri propone Se questo è un uomo letto da Roberto Saviano (euro 14,90) e viene ripercorsa attraverso la restituzione della vita dello scrittore e scienziato da Paolo Di Paolo nella collana pensata per i ragazzi della Nuova Frontiera Junior «Classici del 900»: Primo Levi, la chimica delle parole (pp. 96, euro 13.50).

a. di ge.