Sono le sconfinate coltivazioni di soia a dare la misura delle profonde trasformazioni che il pianeta sta subendo da un punto di vista agricolo ed ambientale. Vaste aree del pianeta sono state colonizzate da questa leguminosa che ha assunto un ruolo strategico nel sistema agricolo mondiale. Arrivata dalla Cina in Europa alla fine del XVII secolo, è stata considerata per lungo tempo una curiosità agronomica e coltivata come pianta ornamentale. Solamente a partire dagli anni ’60 del secolo scorso la sua coltivazione ha interessato superfici più ampie, dimostrando capacità di adattamento sia ai climi temperati che subtropicali. Ma è a partire dagli anni ’90 che la sua produzione è cresciuta in modo esponenziale.

NEL 1995 LA MONSANTO LANCIAVA sul mercato una varietà di soia transgenica in cui era stato introdotto il gene di un batterio che determina la resistenza della pianta all’erbicida glifosato. L’esplosione produttiva che ne è seguita ha portato la soia ad essere la pianta geneticamente modificata più coltivata. I governi di molti paesi, attraverso forti incentivi e sovvenzioni, hanno favorito la sua coltivazione come monocoltura transgenica. Nuove aree nel mondo sono state colonizzate per fare posto alla soia.

AL CONTRARIO DEL MAIS, IN CUI L’AUMENTO di produzione è legato alla crescita delle rese, per la soia l’incremento produttivo è dovuto al notevole aumento delle superfici coltivate. La corsa inarrestabile a produrre soia dipende dall’accresciuta domanda di mangimi animali per gli allevamenti intensivi. Ed è questa relazione tra coltivazione di soia e produzione di carne a condizionare il sistema agricolo mondiale. In tutti i mangimi la soia rappresenta la componente proteica, fondamentale per un rapido accrescimento, mentre il mais è la fonte energetica. I bovini, suini, polli, pesci che vengono allevati e nutriti in tutto il mondo, sono costretti a divorare ogni anno milioni di tonnellate di mangimi a base di soia. E le coltivazioni di soia divorano, a loro volta, foreste, savane, praterie. Oppure prendono il posto di colture destinate all’alimentazione umana. Il crescente fabbisogno di proteine vegetali in campo zootecnico ha determinato negli ultimi 30 anni, secondo la FAO, un incremento della produzione mondiale di soia pari al 240%.

UN PROCESSO INARRESTABILE CHE, per rapidità ed estensione, non ha riscontri nella storia dell’agricoltura. In Brasile, che è diventato il centro mondiale della produzione di questa leguminosa, dal 1990 la superficie coltivata è aumentata del 250%. Questo vuol dire che in territorio brasiliano si ha un incremento medio annuo pari al 5% delle superfici coltivate. Nel Mato Grosso (che significa foresta fitta), principale area di produzione della soia brasiliana, in molte zone la foresta è scomparsa e sterminate piantagioni di soia hanno preso il posto degli alberi. Il «problema soia» è stato più volte sollevato dalle popolazioni interessate e dalle associazioni ambientaliste, perché la sua coltivazione rappresenta la principale causa di deforestazione delle aree tropicali. L’erosione del suolo si accompagna all’uso massiccio di pesticidi (soprattutto il glifosato), con contaminazione ambientale e gravi danni agli ecosistemi. I governi non hanno la forza e la volontà di attuare politiche di sostenibilità ambientale.

LE MULTINAZIONALI DELL’AGROBUSINESS spingono per imporre la coltivazione di soia in tutte le aree disponibili dei paesi in via di sviluppo, sostenendo che si tratta di un modello agricolo vincente. In realtà, dove è stata imposta la produzione, si è determinata la scomparsa di ogni forma di agricoltura familiare, l’allontanamento delle comunità rurali e gravi forme di disgregazione sociale. Con le coltivazioni di soia è stata introdotta la forma più spinta di agricoltura industriale. Aziende di migliaia di ettari vengono gestite da 2-3 persone, le lavorazioni del terreno e la semina sono totalmente meccanizzate, i diserbanti vengono irrorati con gli aerei, potenti mietitrebbiatrici effettuano la raccolta.

IN BRASILE SI PUO’ ARRIVARE A PERCORRERE un centinaio di chilometri di strade, costeggiando monocolture di soia, senza intravedere alcun essere umano impegnato nelle lavorazioni. Una agricoltura senza la presenza umana che produce una sensazione di smarrimento, accentuato dall’assenza totale di qualsiasi forma vegetale che non sia la soia transgenica.
In molte aree dell’America Latina, Asia, Africa, la monocoltura di soia è diventata il simbolo dello «sviluppo che impoverisce» e rappresenta la massima espressione di «estrattivismo» in campo agricolo. Un capitalismo predatorio in cui la terra viene sfruttata con le stesse modalità che si usano per i minerali. Si fa uso di semi transgenici, che non producono altri semi, con l’obiettivo di «estrarre» le piante e i suoi semi da destinare al mercato internazionale, senza alcun beneficio per le economie locali.

NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO, l’accaparramento di terre da destinare alla produzione di soia è un fenomeno sempre più esteso e va di pari passo con la crescente domanda di mangimi animali. Nel 2018, dato FAO, si è arrivati a produrre ben 350 milioni di tonnellate di soia, per l’80% geneticamente modificata, su una superficie coltivata di 120 milioni di ettari.
Brasile e Stati Uniti si contendono il primato con circa 120 milioni di tonnellate a testa, seguiti dall’Argentina e dalla Cina, rispettivamente con 57 e 15 milioni di tonnellate. Ma anche in India, Paraguay, Uruguay, Colombia, Canada, Ucraina, dove si registrano produzioni minori, i ritmi di crescita sono sostenuti. Solo il 7% della produzione viene destinato all’alimentazione umana, mentre più dell’80% è impiegato come mangime animale. Una quota del 12-13% è utilizzata per produrre biocarburanti.

I PAESI DELL’UNIONE EUROPEA IMPORTANO il 90% della soia di cui hanno bisogno, sotto forma di farine e semi, per un totale di 15 milioni di tonnellate. L’Italia è il principale produttore europeo con un milione di tonnellate, una quantità che riesce a coprire meno del 20% del fabbisogno nazionale.

Il mercato mondiale della soia è controllato da pochi gruppi. Alla borsa merci di Chicago, principale punto di riferimento per la quotazione delle materie prime agricole, questa leguminosa svolge un ruolo da protagonista. Migliaia di operatori vigilano da tutto il mondo sull’andamento delle contrattazioni, perché la sua quotazione si riflette sui prezzi di carne e latte. Anche la soia è rimasta coinvolta nella guerra commerciale tra Usa e Cina, determinando consistenti spostamenti nelle quote di mercato dei paesi produttori.

LA CINA IMPORTA IL 60% DI TUTTA LA SOIA in commercio per nutrire i 500 milioni di suini che vengono allevati ogni anno. I dazi cinesi, come contromisura ai dazi di Trump, hanno costretto gli allevatori cinesi a spostare la loro domanda sulla soia proveniente da Brasile e Argentina. L’Europa, a sua volta, ha accentuato il suo interesse per la soia prodotta in Usa, uscita deprezzata dalla guerra dei dazi. Ma le guerre commerciali non intaccano una tendenza che si è oramai consolidata: l’aumento sempre più accentuato della domanda di carne a cui corrisponde, inevitabilmente, un aumento della domanda di soia.

LA CONDIZIONE DI SOIA-DIPENDENZA che si è instaurata è carica di conseguenze. All’inizio del mese di agosto il Comitato Scientifico dell’ONU ha affrontato il tema del rapporto tra uso del suolo e cambiamenti climatici, in una situazione in cui il 70% della superficie agricola mondiale è occupata da colture destinateall’alimentazione animale. Ancora una volta è stato lanciato un «allarme soia», per l’impatto che la sua coltivazione ha sui territori e sul clima e per gli squilibri ambientali che sta determinando. Riuscire a ridurre gli impatti ambientali causati dalla produzione di soia, individuando nuovi modelli di produzione e consumo, è una delle questioni all’ordine del giorno.