Limitano la libertà di scelta, favoriscono comportamenti gregari, trasformano uomini e donne in «stronzi», minano la verità, cancellano ogni autonomia individuale, distruggono la capacità di provare empatia nelle relazioni umane, rendono infelici, negano ogni dignità a chi lavora, riducono la politica in barzelletta, distruggendo così la democrazia, odiano i singoli e le società. Sono questi i dieci validi motivi per cancellare i propri account nei social network. L’invito, che rimbalza da una pagina all’altra in questo pamphlet, viene da Jaron Lanier, guru della network culture (Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il Saggiatore, pp. 211, euro 10).
SCRITTO IN UNO STILE niente affatto accattivante o analitico, il libro sembra la stenografia di un incontro tra due vecchie conoscenze in un bar. Tra un caffè e un drink, uno degli interlocutori non usa mezzi termini per esprimere il disgusto e la diffidenza verso l’ideologia della Silicon Valley. La tecnologia è una cosa buona, così come ottime persone sono molti informatici che vi lavorano, ma le big five (Google, Facebook, Amazon, Twitter e Apple) hanno il potere di corrompere tutto quel che «toccano», afferma più volte l’autore prima di lanciare grida d’allarme per uno stile di vita messo in pericolo dai social network, variamente qualificati come fregatura o sistema che riduce uomini e donne a feroci dementi che tirano fuori il peggio di sé quando sono on line.
Non è la prima volta che Jaron Lanier si scaglia contro i padroni della Rete. Pioniere delle realtà virtuali alla fine degli anni Ottanta, venture capitalist e imprenditore di successo nei decenni successivi è da tempo convinto che il modello di business dominante in Rete ha portato sull’orlo dell’abisso il capitalismo e la società americana. Per evitare che tutto precipiti, propone di disconnettersi dalla Rete per far entrare in crisi proprio quel modello di business.
Molti degli j’accuse presenti nel libro sono condivisibili, a partire dal fatto che Facebook, Twitter, ma anche Amazon, Apple, Google fanno della manipolazione dell’opinione pubblica l’oggetto quotidiano della loro attività. Il software, gli algoritmi, le tecniche di intelligenza artificiale messe in campo dai mastini della Silicon Valley servono a condizionare, influenzare, manipolare le scelte individuali e collettive.
NON ACCADE però solo per i consumi, ma anche per condizionare elezioni presidenziali (negli Usa, ma non solo), referendum nazionali (la Brexit), elezioni politiche. A farlo politici scaltri (Donald Trump o Putin, per citare i più noti). Lanier sostiene, facendo riferimento alle inchieste giudiziarie in corso negli Usa, che i russi hanno usato il web per screditare Hillary Clinton, favorendo così Trump; oppure apprendisti stregoni come Steve Bannon, che hanno alimentato il suprematismo bianco, mentre qualcuno nell’ombra usava account falsi di presunti attivisti afroamericani per mettere in cattiva luce «Black Live Matter».
Il pamphlet affronta argomenti già noti, ma comunque utili da ricordare per capire come funziona il business plan della «fregatura» (i social network), a partire dall’uso di algoritmi adattivi, la miscellanea tra software open source e algoritmi blindati da brevetti e copyright; il ruolo rilevante delle machine learning come leva affinché la manipolazione delle relazioni e degli scambi comunicativi risulti oggettiva e «naturale», occultando così la non neutralità del software.
Il monitoraggio della Rete, la tracciabilità dei comportamenti individuali, la loro «astrazione» quantitativa sono un aspetto fondamentale nell’accumulo dei Big Data, che vengono plasmati, impacchettati, scomposti e ricomposti come merce da vendere per strategie pubblicitarie mirate. Ma come hanno evidenziato le audizioni di Mark Zuckeberg dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, tutto ciò a che fare con la produzione di opinione pubblica. È su questa faglia che si gioca la partita, sbrogliando il bandolo della matassa che anche Jaron Lanier contribuisce a definire.
È questo l’arcano del business model dominante nel capitalismo contemporaneo. Una volta svelato, il tema della produzione dell’opinione pubblica e della sua manipolazione perde il sapore acido di una critica moralistica per restituire la sua dimensione materiale, dove la questione del potere e dei rapporti sociali diventa finalmente di nuovo centrale.
Le shit storms, gli imprenditori politici della paura, il populismo postmoderno trovano infatti legittimità in questo totalità. Più che disconnetersi da essa, fattore che salva l’anima e niente più, occorre semmai sabotarla, farla deflagare. Ma qui serve un surplus di pensiero critico, quello che occorre per immaginare una politica della liberazione.