Che Joyce non sia passato alla storia come poeta è un dato di fatto, eppure la sua prima opera in volume, pubblicata ben sette anni prima di Dubliners, fu proprio una raccolta di poesie, Chamber Music. Già dal titolo ammiccava alla condizione della musica, che – come nota Richard Ellmann – racchiudeva in sé tutta l’aspirazione della sua intricata letteratura. È innegabile, infatti, che sia Un ritratto dell’artista da giovane, sia Ulisse, ma soprattutto Finnegans Wake, non possano in alcun modo prescindere da una dimensione fondamentalmente musicale.

D’altro canto, è risaputo che per Joyce la scrittura fu quasi un ripiego, dopo il fallimento della sua prima ambizione giovanile, quella di fare il cantante. In età più matura, anche per via dei gravissimi problemi alla vista, sviluppò una incredibile sensibilità uditiva, che lo avrebbe portato, per sua stessa ammissione, a comporre musica con le parole.

Amante dell’opera come delle ballate elisabettiane, la passione per la musica è per Joyce una costante per lui, dagli anni dublinesi a quelli trascorsi a Zurigo, passando per Trieste, Roma, e Parigi.

Esce in questi giorni, per la Nuova Trauben di Torino, una interessante riproposizione di Pomes Penyeach (a cura di Francesca Romana Paci, pp. 66, euro 12): nel volumetto sono comprese tredici brevi poesie pubblicate a Parigi nel 1927, che qualche anno dopo furono persino musicate da un gruppo di compositori. In Italia erano già state presentate nelle traduzioni di Camerino, Rossi, Sanesi, Natali e altri, ma nella nuova edizione si giovano di un corposo apparato di note e di una interessante postfazione in cui si dà conto, prima di tutto, della stessa misteriosa polisemia del titolo. Polisemia riproposta persino in copertina, in quello che si potrebbe considerare un doppio sottotitolo, ma che in realtà è una traduzione duale dell’enigmatico titolo della raccolta: Pomi un penny l’uno / Poesie una pena l’una.

Il fil rouge è, infatti, secondo la curatrice, una venatura di sofferenza che affiora in molti luoghi del testo: la sofferenza per la figlia Lucia, affetta da disturbi psichici, la quale di una nota edizione dei Pomes curò persino eleganti e raffinate elaborazioni pittoriche delle iniziali di ogni componimento. Joyce avrebbe dedicato alle sorti della figlia tanto tempo e tante energie, negli ultimi disperati anni di vita – e anche gran parte delle proprie risorse economiche.

Altre «pene» che donano tinte ineffabili e oscure al libro sono quelle legate alle ombre di un passato mai davvero dimenticato, un passato che ci parla di morti e anche d’amore, come nella famosissima She Weeps Over Rahoon, da leggersi in parallelo con il nucleo fondante del racconto I morti di Gente di Dublino.
Ma a ben vedere, è proprio il sottofondo musicale a dare unità alla raccolta: echi di Bellini e di Verdi letteralmente accompagnano l’andamento cadenzato dei versi, che strizzano certamente l’occhio all’estetismo di Symons o anche all’imagismo di Pound, ma a quelle tendenze aggiungono inattese tinte esistenziali, in grado di proiettare l’opera tra le espressioni più significative della produzione letteraria di Joyce.