Entrano in scena con discrezione i film di Uberto Pasolini e fanno scalpore, come Still Life presentato nella sezione Orizzonti a Venezia, premiato dai rispettivi sindacati di giornalisti e critici italiani, invitato in tutti i festival. Protagonista è un impiegato comunale addetto a rintracciare i parenti e assistere ai funerali di chi non ha più nessuno, filone classico del cinema britannico fin dai tempi del Caro estinto.

Uberto Pasolini produttore di film come Full Monthy e Palookaville («parente di Pasolini? no, siamo imparentati con i Visconti» disse proprio in quell’occasione), esordio come regista con Machan, i singalesi che si fingono una squadra per entrare in Germania, vive a Londra e i suoi film hanno avuto la caratteristica di sapere in anticipo dove colpirà il neoliberismo, sia nel caso che si tratti di disoccupati organizzati, di immigrati creativi o di soliti ignoti. Qui è l’azzeramento della pietas in favore della logica dei tagli di budget, infatti il protagonista Mr. May è l’unico a preoccuparsi di dare una degna sepoltura a quei poveri esseri abbandonati, scegliendo per ognuno di loro una musica appropriata e scrivendo lui stesso i sermoni funebri, scrupoloso ma costoso per il comune.

Il significato del titolo Still Life? «Vuol dire tante cose, dice Pasolini: «vita ferma» che non si muove come quella del protagonista, «ancora vita» che, come tutte le vite devono essere valorizzate. Still in inglese è «fotografia», in italiano si potrebbe tradurre «natura morta», dove in inglese l’accento è posto sul termine «vita». Per me è un titolo adatto al film che assume tanti significati». Il personaggio si ispira a quelli reali, dice, come del resto i casi che mette in scena: «Ho letto su un quotidiano di Londra un’intervista a uno di questi addetti alle esequie e così ho cominciato la mia ricerca. Per due mesi insieme a loro ho visitato gli appartamenti vuoti in quartieri poveri e ho presenziato a vari funerali e cremazioni. Spesso ero solo, non c’era neanche l’impiegato perché non aveva tempo. Nel film ci sono le tracce, i ricordi delle case che ho visitato e anche le fotografie che si vedono nel film sono autentiche. Invece le ossessioni che ho attribuito al protagonista sono tutte mie».

Come anche la recente solitudine provata con il divorzio, confessa, il tornare in una casa deserta e accendere la radio per sentire delle voci («anche se poi vedo mia moglie tutti i giorni perché lavoriamo insieme, lei fa le musiche dei miei film. E le figlie almeno due volte al giorno, al contrario della vita di chi non ha nessuno»). Ma l’elemento che balza all’attenzione è lo svuotamento di valori di una società tutta basata sui tagli ai servizi: «È da un po’ di tempo che per me il cinema è una ricerca di realtà sociali diverse dalla mia che trovo di nessun interesse – io sono una persona straprivilegiata, ho fatto il banchiere per trent’anni e poi negli ultimi trenta ho fatto cinema e sono stati gli anni più interessanti. È un’opportunità far conoscere realtà sociali a me sconosciute come il capofamiglia che perde il lavoro di Full Monty (io non ho mai avuto il problema di perdere il lavoro). Il valore di una società si vede da come tratta i più deboli. Oggi in Inghilterra si sta facendo di tutto per ridurre la presenza dello stato come, un esempio tra i tanti, i pasti caldi alle persone che vivono sole crollati del 50% per l’aumento del prezzo, senza che quelle persone abbiano più neanche modo di scambiare una parola con chi portava loro il cibo. Vivo a Londra, una città dove l’isolamento diventa sempre più diffuso e nessuno conosce i vicini, me compreso. Dopo aver fatto questo film ora li conosco e li frequento. Loro non sanno perché».