Silvana Silvestri
Entrano in scena con discrezione i film di Uberto Pasolini e fanno scalpore, come “Still Life” presentato nella sezione Orizzonti del festival di Venezia, premiato da giornalisti e critici italiani nei loro rispettivi sindacati, invitato in tutti i festival e distribuito anche negli Usa, una storia che può allarmare solo i superstiziosissimi distributori e produttori italiani. Protagonista è infatti un impiegato comunale addetto a rintracciare i parenti e assistere ai funerali di chi non ha più nessuno. Nel caso del tipico humour nero britannico non c’è problema, con film classici dal “Caro estinto in poi”. Uberto Pasolini produttore di film come “Full Monthy” e “Palookaville” («Parente di Pasolini? no, siamo imparentati con i Visconti» disse proprio in quell’occasione), esordio come regista di “Machan”, i singalesi che si fingono una squadra per entrare in Germania, vive a Londra e i suoi film hanno avuto la caratteristica di sapere in anticipo dove colpirà il neoliberismo, sia nel caso che si tratti di disoccupati organizzati, di immigrati creativi o di soliti ignoti.

Qui è l’azzeramento della pietas in favore dei tagli al budget pubblico, infatti il protagonista Mr. May è l’unico a preoccuparsi di dare una degna sepoltura a quei poveri esseri abbandonati, scegliendo per ognuno di loro una musica appropriata e scrivendo sermoni funebri. Il titolo “Still Life”, una volta tanto non tradotto, cosa significa? «Vuol dire tante cose, dice Pasolini: «vita ferma» che non si muove come qulla del protagonista, «ancora vita» che, come tutte le vite devono essere valorizzate, inoltre Still in inglese è «fotografia», in italiano si potrebbe tradurre «natura morta», ma in inglese l’accento è posto sul termine «vita». Per me è un titolo adatto al film che assume tanti significati».
Il protagonista si ispira a personaggi reali, dice, come del resto i casi che mette in scena: «Ho letto su un quotidiano di Londra un’intervista a uno di questi addetti alle esequie e così ho cominciato la mia ricerca. Londra è divisa in comuni e ogni comune ha il suo addetto: in due comuni molto poveri per due mesi ho visitato le case insieme a loro e ho presenziato a vari funerali e cremazioni. Spesso ero solo, non c’era neanche l’impiegato perché non aveva tempo. Nel film ci sono le tracce, i ricordi delle case che ho visitato velocemente e anche le fotografie che si vedono nel film sono autentiche. Invece la vita piena di ossessioni che ho attribuito al protagonista è uguale alla mia».
Come anche la recente solitudine provata con il divorzio, confessa, il tornare in una casa deserta e accendere la radio per sentire delle voci («anche se poi vedo mia moglie tutti i giorni perché lavoriamo insieme, lei fa le musiche dei miei film. E le figlie almeno due volte al giorno, al contrario della vita di chi non ha nessuno»). Ma l’elemento che balza all’attenzione è lo svuotamento di valori di una società tutta basata sui tagli ai servizi: «È da un po di tempo che per me il cinema è una ricerca di realtà sociali diverse dalla mia che trovo di nessun interesse – io sono una persona straprivilegiata, ho fatto il banchiere per trent’anni e poi negli ultimi trenta ho fatto cinema e sono stati gli anni più interessanti. È un’opportunità far conoscere realtà sociali a me sconosciute come il capofamiglia che perde il lavoro di “Full Monthy” (io non ho mai avuto il problema di perdere il lavoro). Il valore di una società si vede da come tratta i più deboli.

Oggi in Inghilterra si sta facendo di tutto per ridurre la presenza dello stato come, un esempio tra i tanti, i pasti caldi alle persone che vivono sole crollati del 50% per l’aumento del prezzo, senza che quelle persone abbiano più neanche modo di scambiare una parola con chi portava loro il cibo. Vivo a Londra, una città dove l’isolamento diventa sempre più diffuso e nessuno conosce i vicini, me compreso. Dopo aver fatto questo film ora li conosco e li frequento. Loro non sanno perché».