Fra luci e ombre, nessun altro luogo come l’Armenia ci racconta in modo così significativo il tracollo del sistema sovietico. Anni drammatici che, in questa piccola repubblica caucasica, non sembrano aver avuto mai una fine, quasi destinati a ripetersi ogni giorno, come in una maledizione. Certo è che nessun altro Paese, fra quelli nati con la caduta dell’Urss, ha pagato in modo più rovinoso – da un punto di vista sociale ed economico – le conseguenze di questa svolta, le cui cicatrici si trovano disseminate un po’ ovunque: dalle città fatiscenti e sempre più svuotate, ai corpi curvati e sofferenti degli anziani, che si sono trovati, dall’oggi al domani, privi di cure mediche adeguate in quello che era considerato, un tempo, un luogo all’avanguardia dell’industrializzazione sovietica.

Una transizione dolorosa, incompiuta, avvenuta in tragica congiuntura con altri due eventi di cui ancora sono ben visibili gli effetti: il terremoto di Spitak del 1988, in cui persero la vita 25mila persone, e lo scoppio del conflitto tuttora in corso con l’Azerbaigian per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, la più dimenticata fra le guerre del nostro tempo. Eppure, l’Armenia di oggi < pur se nascosti a un primo sguardo  ha tratti di modernità sorprendenti, che la proiettano la capitale Yerevan, grazie anche al contributo della diaspora, in una dimensione cosmopolita e competitiva, da un punto di vista culturale e tecnologico. Questo a dispetto della precarietà di uno stato isolato, con due confini invalicabili da oltre due decenni, a causa del blocco imposto da Turchia e Azerbaigian, fra antichi spettri (il genocidio del 1915, nodo irrisolto con Ankara) e una corsa al riarmo, che fa dell’Armenia uno dei primissimi Paesi al mondo nel rapporto fra spese militari e Pil. Una nazione che sembra  – ieri come oggi – sempre sull’orlo del collasso, salvo poi rinascere, eterna fenice.

Nella città di Alaverdi, quasi al confine con la Georgia, o nel distretto di Shengavit, a Yerevan città antichissima, ma nella sua forma attuale nella quasi totalità sovietica incombono gli scheletri immensi delle industrie abbandonate dell’Urss, materia per una futura archeologia del socialismo reale.

C’è poco di cui stupirsi, allora, se l’Armenia di oggi per sopravvivere debba fare ancora affidamento  da un punto di vista economico, militare e delle risorse sulla Russia, che nutre e foraggia oligarchi locali i quali, a suon di monopoli, rischiano sempre più di strozzare i buoni risultati raggiunti dalla democrazia armena. A poco serve una libertà formale, sulla carta, quando le diseguaglianze sono così marcate, e un cittadino su tre vive sotto la soglia di povertà. Come a poco sono servite, fino a oggi, le ondate di proteste che sono proseguite pressoché ininterrotte dal 2013 al 2016. Proteste di carattere sociale ed economico, ma in cui è emersa in modo sempre più netta un’insofferenza diffusa nei confronti di Mosca.

Tutti in fuga dall’Armenia, allora che, secondo una recente indagine, è ai primissimi posti al mondo fra i Paesi da cui si vorrebbe andar via. Batte persino la Siria, secondo i dati riportati da Gallup. Il 47% degli adulti armeni dichiara che vorrebbe emigrare, mentre quella per la demografia si profila come una lotta per la sopravvivenza, per un Paese con meno di tre milioni di abitanti e in guerra da un quarto di secolo. In questo quadro a tinte fosche, non mancano alcune note positive: su tutte, il rapido sviluppo del settore IT. L’Armenia, con 450 imprese, produce ed esporta software e tecnologie in oltre venti stati. Ma non basta. Troppi gli interrogativi e le incertezze, in questo Paese ancora sommerso dalle macerie e dalla cenere.