Il profeta era colui che, tramite un sogno, e ancora di più, una visione, interpretava la parola di Dio, parlava dalla località-Dio, entrava dentro di essa attraverso un’immagine, e quell’immagine condensava non soltanto una singola parola, ma un discorso, una sequenza. La località-Dio poteva ricostruirsi in una mappatura di visioni differenti, compreso il mysterium iniquitatis che anticipava la distruzione. Forse non a caso, in Civilization, un libro collettivo curato da William A. Ewing e Holly Roussel, troviamo 143 fotografi pronti a consegnarci un nuovo album fotografico del mondo, o come recita il sottotitolo, Immagini per il XXI secolo. Questi artisti hanno lavorato per anni dentro spazi chiusi o aperti, luoghi pubblici o privati. Uno dei temi più ricorrenti è quello ben sintetizzato dalle parole dello storico Wilhem Mommsen (1892-1966): «Oggi è dovere dell’intera umanità assicurarsi che la civiltà non distrugga la cultura, né la tecnologia l’essere umano».

CASE E CUBICOLI
Cosa può raccontare un libro per immagini sulle condizioni animali e vegetali del nostro presente e quali spiragli aprire sul futuro, se compito dell’artista è dire la verità, pur non avendo egli alcun dovere nei confronti della società? Secondo Iris Murdoch, Dickens era uno scrittore notevole anche «grazie a profonde e terribili visioni di grande forza immaginativa che non avevano niente a che fare con le riforme sociali».
Il susseguirsi degli eventi presenti nel volume fungono spesso da immagini anticipatrici, parafrasando Jean-Jacques Wunenburger, e ci trasmettono un contenuto fenomenico nel costante registro del «come se».
E così, sfogliando Civilization, deduciamo che è successo davvero, sebbene non sappiamo definire cosa sia successo: siamo tanti e soli, l’umanità è un paradosso, è la stessa epoca che viviamo a volerci paradossali. La popolazione mondiale, nell’aprile 2018, ha raggiunto 7,6 miliardi di persone; talvolta siamo la folla compatta di Cyril Porchet, talvolta abitiamo la casa destinata ai poveri in futuro, descritta da Benny Lam: un cubicolo di 5 metri quadrati, spazio multifunzionale per la famiglia Leung.
Nel 2100, l’Onu stima che il pianeta sarà abitato da 11,2 miliardi di persone, senza contare i prossimi umanoidi; uno di questi si chiama Joey Chaos e lo ha ritratto Max Aguilera. Ewing, si chiede: non dovremmo preoccuparci un po’ che il Joey Chaos di Aguilera abbia «opinioni politiche estremiste»? La fotografia ci descrive, usa il mezzo per parlare al posto di e svolgere la propria funzione profetica, di ciò che già esiste. Ewing, per introdurci al concetto di civiltà, cita lo storico dell’arte Kenneth Clark: «Che cos’è la civiltà? Non lo so, ma credo di poterla riconoscere se ne vedo una: e ne sto guardando una adesso». Così anche noi.
Sfogliamo questo volume e attraversiamo l’intera tipologia di una vocazione onerosa, entriamo nel grande archivio planetario di artisti che cercano, studiano, documentano, interpretano soggetti e avvenimenti, si occupano di una civiltà che – come sottolinea Candida Höfer – è cumulativa. Tra questi non mancano: Lynne Cohen, Taryn Simon, Cindy Sherman, Olivo Barbieri, Edward Burtynsky, David Maisel, Vincent Fournier, Raimond Wouda, Walter Niedermayr, Peter Bialobrzeski, Mike Kelly, Chris Jordan, Hong Hao, Irene Kung, Sheng-Wen Lo, Thomas Struth, Larry Sultan, Mitch Epstein.

IL TEMPO PROFONDO
Ma cosa chiarisce la fotografia? Cosa spiega, o meglio ancora, cosa è in grado di spiegare? Per esempio, Walter Niedermayr, con le sue stampe, ci ricorda che l’immagine sta sempre sul crinale di ciò che è possibile o impossibile vedere. Nel frammento 1159, Emily Dickinson, alla fine della sua epoca, nel 1870, scriveva: «Gli orologi dicevano che era mattino/ a distanza le campane sollecitavano la notte – Qui tuttavia il tempo non aveva fondamento/Perché l’epoca si estingueva». Penelope Umbrico dice che «il tempo su questo pianeta è praticamente un’anomalia statistica. Nessuno di noi si trova veramente qui, secondo il Tempo Profondo».
Nel 2012, l’artista Trevor Paglen, collaborando con i ricercatori del Massachusetts Institute Of Technology, ha sviluppato un disco con le microincisioni di cento fotografie; il disco, archiviato sul satellite EchoStar XVI, è stato lanciato in orbita affinché le immagini sopravvivano alle prossime civiltà umane, postrema traccia del nostro passaggio. Fotografie che, come sempre, parlano da quella sottile linea di confine tra tempo e spazio, ovvero qui, pochi istanti fa.