A qualunque livello lo si consideri, il capitalismo è un sistema di produzione dello spazio: modella i luoghi e ne trasforma le relazioni spazio-temporali. Non comportando affatto un’uniformazione, esso prolifera di differenze da mettere a valore. Questo dinamismo fa del capitalismo un «insieme instabile in preda a crisi croniche – scrive Harvey – costretto a inventare soluzioni spaziali» alle contraddizioni che lo minano, producendo continuamente spazi esterni da colonizzare, seppur interni agli Stati e alle città, quali necessari sbocchi della «riproduzione allargata», «fonti di approvvigionamento dei mezzi di produzione e riserve di forze-lavoro».
Tale riflessione di Rosa Luxemburg ci introduce al volume del Laboratorio Crash, Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli (RedStar Press, pp. 297, euro 20) che analizza da diverse angolazioni il terreno della nuova accumulazione, la metropoli. «Un fenomeno sempre più globalizzato leggibile alla stregua di una piattaforma per l’estrazione di valore e per la sua privatizzazione a beneficio di un numero esiguo di individui che si riproduce simultaneamente a molteplici latitudini».

IL VOLUME RACCOGLIE una selezione di testi frutto di seminari che risponde a quel monito definito da Primo Moroni «socializzazione dei saperi».
La città è metafora del capitalismo coevo: convivenza se non scontro fra centro e periferie, un dentro e tanti fuori. È un piano ambivalente il cui soggetto produttivo, in passato inscritto nella categoria onnicomprensiva dell’«operaio sociale», è raffigurabile da una molteplicità di figure che condividono contraddittoriamente lo spazio urbano nelle più disparate posizioni sociali e produttive. Si badi che nel patchwork sociale è all’interno delle periferie che pulsa il cuore della bestia: alti livelli di accumulazione così come violente forme di sfruttamento; invece, nel centro della metropoli e della finanza internazionale convivono pratiche di precarietà e di povertà.

Il libro è composto di quattro sezioni: alcune più teoriche, altre raccolgono esempi di conflitti nell’urbanità e talaltre sono «analisi militanti» del network Infoaut. Da annoverare tra le prime sono l’inedito di Lefebvre e una preziosa intervista a Harvey, a dimostrazione della prensile analisi dell’urbe, situata fra pre e post-modernità, quale «diritto alla città».
Una rivendicazione che non riassume solamente i bisogni essenziali ma esprime la qualità dell’urbano: da una parte, spazio minato di dispositivi di cattura di risorse, dall’altra, terreno in cui sperimentare forme di vita alternativa e avanzare pratiche di resistenza. Nel volume, fra le righe, appare un fil rouge metodologico, cioè il metodo della tendenza, per cui – come insegna Alquati – le tendenze ancor più se contraddittorie vanno «anticipate per deviarle altrove».

LA METROPOLI diviene il panopticon del capitale, il terreno minato del suo divenire merce e profitto. Dove sono il fenomeno delle home sharing come Airbnb e la corsa al rialzo dei prezzi delle case, lì sorgono le resistenze alla turistificazione; mentre la crescita della rendita anziché depotenziare offre linfa ai movimenti per il diritto all’abitare. E per altri versi, riportando Pasolini nelle periferie e accantonando il giustificazionismo funzionalista per cui esse sono celebrazione del marginale, si nota invece che l’intelligenza vive spesso nelle periferie, laddove «le competenze e le capacità di un informatico precarizzato» non stridono contro «un Ceo di successo che vive in un centro gentrificato».
La presunta meritocrazia dei curricula giustificherà la lotteria sociale da cui conseguono le loro differenze salariali, ma lo spazio urbano livellerà e sarà vieppiù conflittuale nella convivenza di tali condizioni. Qui si possono intravedere semi di trasformazione sociale: in quel conflitto urbano che, venuto alla luce, convogli l’odio di classe. Quell’odio di cui Sanguineti auspicava la «restaurazione», come necessità storica e motore di ogni progresso umano. Così faremmo nostra la verità storica che «la lotta di classe esiste». Ma «l’abbiamo vinta noi», ricorda l’immobiliarista Warren Buffett, il terzo più ricco al mondo. Almeno per ora.