C’era una volta il modello scandinavo. Questo, prima che le terre d’elezione della socialdemocrazia europea si trasformassero in una sorta di laboratorio delle nuove destre: un orizzonte che va dai consensi raccolti dai partiti xenofobi alla strage compiuta nel 2011 a Oslo da Anders Breivik. Uno dei più attenti studiosi di questi fenomeni, il politologo Cas Mudde, già in un saggio del 2007 (Populist radical right parties in Europe) aveva parlato della «patologia sociale che si è sviluppata in queste regioni con la messa in discussione del modello dello Stato sociale». Con la crisi del welfare, suggeriva Mudde, è un intero modello di società che sembra essere andato in frantumi.

L’unico paese della Scandinavia in cui domani non si vota, perché non fa parte della Ue, è la Norvegia. Eppure, non si sente certo la mancanza degli euroscettici, visto che i loro omologhi, i populisti di destra del Partito del progresso – alla cui organizzazione giovanile era stato iscritto Breivik – siedono dallo scorso settembre nel governo guidato dal premier conservatore Erna Solberg.

Per molti versi una situazione simile a quanto si è verificato in Danimarca tra il 2001 e il 2011, quando il Dansk Folkeparti (Df), Partito del popolo danese, spesso paragonato dalla stampa locale al Front National francese, ha garantito la sopravvivenza di un esecutivo di centrodestra guidato dal liberale Anders Fogh Rasmussen, poi passato al vertice della Nato. In cambio del loro appoggio, i populisti hanno ottenuto una drastica stretta nelle politiche su immigrazione e diritto d’asilo.

Oggi a Copenhagen governa il centrosinistra, ma lo scandalo suscitato nei mesi scorsi dalle rivelazioni sulla privatizzazione dell’Enel locale, che per un soffio non è finita nelle mani di Goldman Sachs, rischia di trasformare il voto europeo in un test interno. E a lucrare di più sulla vicenda sono proprio i populisti islamofobi del Df – era vicino a loro il giornale che per primo pubblicò nel 2005 le famose vignette su Maometto -, cui i sondaggi attribuiscono il 21,7%.

Schierati soprattutto contro la politica economica di Bruxelles e i costi che la Ue imporrebbe al Paese, ma anche contro le norme a tutela della minoranza svedese e i diritti degli omosessuali, sono invece i «Veri finlandesi»: dopo aver raccolto il 20% dei voti nel 2011, ora sono attestati intorno al 18%. Guidati da Timo Soini, un ex imprenditore del settore alimentare che fu il politico più votato del Paese in occasione delle europee di 5 anni fa, i populisti finlandesi raccolgono la maggior parte dei consensi nelle zone industriali, o ex industriali, di Helsinki, puntando tutto sull’equazione tra crisi economica – in questo caso i guai dell’industria della telefonia Nokia – e apertura delle frontiere.

Diversa, infine, la situazione della Svezia, dove l’estrema destra è debole sul piano elettorale ma vanta una lunga tradizione di violenza. Al punto che nel 1995, dopo la strage più spaventosa realizzata da un estremista razzista in Occidente, il giornalista e scrittore antifascista Stieg Larsson ammoniva: «Prima o poi anche in Svezia si verificherà un massacro come quello di Oklahoma City. Tutti gli ingredienti sono già presenti: odio, fanatismo, esaltazione della violenza».

Nel Paese, dove si registrano centinaia di episodi di razzismo ogni anno, il partito dei «Democratici svedesi», sotto la guida del leader trentacinquenne Jimmie Akesson, sta cercando di sdoganare la xenofobia nel dibattito politico. Dopo essere entrato nel parlamento nazionale nel 2010, grazie al 5% dei voti, il partito, alleato della francese Marine Le Pen in Europa, è oggi accreditato del 6,6% dei consensi. La sua aggressiva campagna elettorale è tutta imperniata sulla «pericolosità degli stranieri»: il riferimento esplicito è alla rivolta della banlieue di Stoccolma dello scorso anno.