Esiste un annoso dibattito rispetto alla possibilità e all’opportunità di trasmettere contenuti filosofici o politici o sociologici attraverso il genere letterario più amato e diffuso, il romanzo. Il romanzo, come ricorda Zygmunt Bauman ne La scienza della libertà, è l’architrave dell’esperienza soggettiva di cui ha un disperato bisogno l’esperienza oggettiva per non lasciare fuori dalla scena lo spazio incandescente che alberga in ciascuno di noi e che sarebbe dissennato oltreché ingiusto estromettere dalle narrazioni. Poi, va da sé, le grandi narrazioni riescono a gettare luce non solo sulle sensazioni, le emozioni e le vicende private descritte nei romanzi ma, facendo leva sul fatto il più delle volte oscurato che i problemi delle singole persone gravano su una moltitudine di altre persone, che si tratta di problemi condivisi, in un romanzo sarà possibile ritrovare non solo lo specchio incarnato di se stessi ma anche le iatture, le delizie o le trasformazioni del mondo che ci circonda.

Si pensi ai Buddenbrook: la frattura che racconta il romanzo di Thomas Mann, l’implosione del mondo che Lacan definirebbe «del padrone» (un padrone manifesto anzi ostentato, da Etica nicomachea aristotelica, che avrebbe in seguito assunto nuove vesti e nuovi mascheramenti), sarebbe impensabile oggigiorno, eppure quando venne scritto valeva per la comprensione umana più di cento trattati. O a L’uomo senza qualità, in cui il “matematico” Robert Musil dimostra in duemila pagine l’inanità di qualunque sforzo, foss’anche da parte di un genio come lui, di descrivere oggettivamente i sentimenti, persino dei due gemelli Ulrich e Agathe che tentano il triplo salto mortale della uno-duità nel secondo volume: niente da fare, l’opera resta incompiuta come la loro unione e il messaggio è che la scienza e la tecnica sono destinate ad arenarsi di fronte all’insondabile ambivalenza umana creatrice e insieme distruttrice.

Sono questi gli aspetti del romanzo che emergono nel noir di Paolo Calabrò L’intransigenza (Prato editore, pp. 208, euro 10) sebbene il brio e l’umorismo che lo percorrono dall’inizio alla fine siano agli antipodi della pesantezza quasi consustanziale alla filosofia: la narrazione è lieve e dolce come una gita in barca a vela in una bella giornata di maggio, eppure dopo essersi affezionati all’io narrante Nico Baselice, vigile casertano laureato in psicologia, e al deuteragonista Maurizio Auriemma, arrivato non si sa perché da Napoli, che veglia solo di notte e lo coadiuva nell’indagine che obtorto collo si trovano a dover effettuare, si arriva alla fine e si è costretti a fare i conti con il «Dio perverso» di Maurice Bellet a cui l’autore, poliedrico laureato in informatica e in filosofia, ha dedicato uno dei suoi saggi.
La «intransigenza» del titolo è uno dei frutti avvelenati del «radicale stravolgimento della figura di Dio sviluppatosi nei secoli dell’esperienza cristiana». Dio, all’inizio padre benefico, «diventa un Dio sadico e crudele che condanna il piacere dell’uomo e ne apprezza la mortificazione» e può richiedergli il compimento di azioni criminali come le «guerre giuste» e «la tolleranza della pena di morte e della tortura».

Nel corso della soavità del romanzo vengono alla luce azioni perverse che mai ci si sarebbe aspettato da personaggi incasellati in ruoli virtuosi, e in effetti se «i seguaci del Dio perverso possono essere i peggiori criminali» e la serie a cui dà inizio questo titolo si chiama «I gialli del Dio perverso», credo che ne vedremo (ne leggeremo) delle belle.

L’autore presenterà la sua opera al Salone del Libro di Torino il 15 maggio alle 17,30 nella Sala Avorio.