Trenta settembre 1967, Passaic, vicino la cava di Franklin, New Jersey. Su un terrain vague cammina pensieroso Robert Smithson assieme all’artista e moglie Nancy Holt. Originario di queste parti, Smithson veste i panni dell’esploratore che si spinge in una terra incognita, unico modo per affrontare un luogo divenuto troppo familiare per essere propriamente visto e vissuto.

Realizza foto e cartografie, prende appunti poi ordinati in un articolo che, con lo stile di un resoconto di viaggio, offre un distillato del suo pensiero (A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey, pubblicato su «Artforum», settembre ’68).

Come ricorda Nancy Holt, nel corso di questa promenade in una terra ricca di minerali (se ne contano più di 200), Smithson s’imbatte in uno che ignorava e il cui nome lo interpella: la smithsonite. È sorpreso di trovarsi in uno dei rari luoghi negli Stati Uniti con una presenza significativa di questo minerale.

La felice coincidenza è estranea alla storia della sua famiglia: la smithsonite prende il nome dal mineralogista che l’ha analizzata nel 1803, James Smithson, fondatore del celebre Smithsonian Institution a Washington DC. Un caso simile a quello di Robert Smythson (con la i greca), architetto dell’era elisabettiana di cui Smithson custodiva una monografia nella sua biblioteca.

I libri sui cristalli

Per comprendere quanto la scoperta della smithsonite costituì per Smithson un evento capitale nella sua carriera, diventando per lui un oggetto d’affezione utilizzato nei suoi Non-Sites, facciamo un passo indietro.

Da alcuni anni la geologia lo interessava almeno quanto l’arte contemporanea. Si documentava in materia, chiedendo al padre dell’artista Michael Heizer, geologo di professione, cosa leggere; trovava ispirazione in Principles of Geomorphology di Easterbrook e altri libri sui cristalli. Nel suo pensiero e nella sua opera, l’entropia prende il posto del progresso allo stesso modo in cui la geologia prende il posto della teologia, una transizione che offre una chiave per entrare nella sua opera.

La geologia costituisce per Smithson un bagno nel tempo profondo di cui aveva bisogno per liberarsi dalle maglie strette del modernismo e, in generale, dal discorso istituzionale nella storia dell’arte contemporanea che ragionava con categorie anguste sotto almeno due punti di vista.

Il primo è quello temporale: Smithson aveva difficoltà a vivere nel presente non perché volesse fuggire in un passato ancestrale o in un futuro fantascientifico, ma perché il presente veicolato dalla storia e dalla critica d’arte di allora era angusto, soffocante, frutto di una «teologia della Storia» cui non credeva più da tempo.

Una ripartizione temporale per lui troppo ideologica: «Il tempo in quanto ideologia ha prodotto molte ‘storie dell’arte’ incerte con l’aiuto dei mass-media. Le storie dell’arte possono essere misurate nel tempo dai libri (anni), dalle riviste (mesi), dai giornali (settimane e giorni), dalla radio e dalla televisione (giorni e ore). Quelli che in una galleria diventano propriamente istanti!» (Quasi-Infinities and the Waning of Space, 1966).

Il secondo punto di vista è il modello biologico e organico, cui l’arte era rimasta debitrice e che l’aveva trasfigurata in un corpo che nasce, si sviluppa, cade in disgrazia, muore e, ovviamente, rinasce. E questo sebbene «L’arte non sia biologia. Il termine stesso Rinascimento, che indica una ‘rinascita’, è fallace. Quando mai l’arte è morta? La gente muore, ma l’arte è solo arte. L’arte esiste nel tempo ed è o ricordata o dimenticata, ma non è mai viva o morta” (A refutation of historical humanism, 1966-’67).

Così come Ad Reinhardt, Smithson aveva letto troppo George Kubler per credere e per cadere in questa trappola. Progresso, evoluzione, avanguardia, creatività: la terminologia critica diffusa all’epoca non si confaceva alle sue opere, allo stesso modo delle metafore biomorfiche e organiche mutuate dall’architettura. Non dimentichiamo che Smithson vedeva nella hall interna del Solomon Guggenheim un tubo digerente.

l’artista Robert Smithson
l’artista Robert Smithson

 

Una prima cristallizzazione dell’interesse geologico si trova in un articolo del 1968, Sedimentation of the Mind: Earth Projects: «Gli strati della Terra sono un museo alla rinfusa. Per leggere le rocce dobbiamo prendere coscienza del tempo geologico, e degli strati di materiale preistorico sepolto nella crosta terrestre».

Non solo: Smithson comincia a vedere un’analogia tra i minerali e il loro nome: «perché alla base del minerale e della stampa vi è l’inizio di un numero abissale di fessure. Parole e rocce contengono un linguaggio che segue una sintassi di crepe e rotture. Guardate qualsiasi parola abbastanza a lungo e la vedrete schiudersi in una serie di faglie, in un terreno di particelle contenenti ciascuna il proprio vuoto» (Sedimentation). Le parole sono come rocce porose piene di crepe, che basta osservare per vederle esplodere sotto i nostri occhi. Un potenziale esplosivo della parola che è, ovviamente, un potenziale espressivo.

Ambiguità pietra/cervello

La giustapposizione tra processi psichici e geologici, tra corpo umano e pietre è restituita da quella che Smithson chiama geologia astratta, un inconscio geologico o, per usare la felice locuzione di Sébastien Marot, una «psicogeologia» (L’art de la mémoire, le territoire et l’architecture, Editions de la Villette 2010). Produce una fruttuosa ambiguità tra la Terra e la Psyche, tra la pietra e il cervello.

Smithson sembra veramente credere che il nostro modo di pensare riproduca, nella sostanza, dei processi geologici. I pensieri sono cristallizzazioni; l’oblio, un’erosione; le intuizioni, eruzioni vulcaniche; le catene di pensieri, una frana rocciosa; l’atto stesso di pensare, un «miasma geologico» – «Lo stesso cervello somiglia a una roccia erosa da cui fuoriescono idee e ideali». E nel 1970 confessa a Philip Leider, con una battuta: «M’interesso alla politica del periodo Triassico».

È questo il contesto in cui Smithson incontra la smithsonite: la geologia non è solo la scienza della Terra ma, grazie all’apporto dell’antropologia e della psicologia, un complesso concettuale e visivo vicino alle preoccupazioni umane.

Per dirlo altrimenti, mi sembra che Smithson tracci qui i confini di una nozione inedita e rimasta inesplorata, che non fece in tempo a sviluppare a causa della sua prematura scomparsa a 35 anni quel 20 luglio 1973 mentre sorvolava in aereo un suo earthwork ad Amarillo in Texas. Una nozione che chiamerei corpo geologico. Per offrirne giusto un esempio, girando siti preistorici e geologici in Inghilterra, nel parco nazionale di Dartmoor, in una brughiera piena di rocce, pecore, querce rachitiche e attorcigliate, muschi e licheni, Nancy Holt realizza Buried Poem #1. Consiste in una poesia dedicata al suo compagno e sotterrata; parallelamente realizza un opuscolo con materiale fotografico, una lista degli attrezzi necessari – bussola e badile – e una mappa dettagliata sulla direzione da percorrere per ritrovarla. Una caccia al tesoro che obbliga il destinatario ad attraversare un luogo che, secondo Holt, entra in risonanza con lui. «A site evokes a person» così come, aggiungiamo noi, la smithsonite evoca Smithson.

A forza di guardare le sfaccettature della smithsonite, l’artista doveva riconoscere la sua capigliatura, i suoi occhiali da sole, la sua silhouette, persino alcuni tratti caratteriali. In quel minerale vedeva uno specchio che gli rimandava il suo riflesso screziato, uno però che veniva da un tempo geologico sepolto nella Terra e rispetto al quale, ogni giorno, ringiovaniva.