C’era una volta il duello. Famoso quello tra Achille e Ettore, meno conosciuta la sfida tra Proust e un giornalista. Pushkin ne è uscito nel mondo peggiore, senza neppure salvare l’onore. Nondimeno il suo particolare congedo dal mondo, il suo tragico andare alla cattiva sorte, un senso l’ha avuto. Nel cinema il duello ha avuto un posto di primo piano. Duello al sole: il conflitto mortale, fatto di amore e odio, tra un uomo e una donna (l’amour c’est comme la guerre). Mezzogiorno di fuoco: lo scontro finale, dirimente tra il bene e il male. I duellanti: l’inimicizia permanente tra due uomini che, non disponendo di un comune oggetto d’amore per costituirsi come veri rivali, negano la corrente omoerotica del loro desiderio.

Nei giorni scorsi è andato in onda il «duello inesistente» tra Renzi e Di Maio. Il conflitto di prospettive e la schermaglia permanente (l’impossibilità di costituirlo in modo chiaro), sono stati ridotti da loro in un riflettersi dell’uno nell’assenza dell’altro. I monologhi esistenziali sono la regola dei dibattiti televisivi. Essere sicuri della propria esistenza è più importante dell’aver qualcosa da dire alla persona che sta di fronte. I nostri leader amletici, con fare opposto a quello del cavaliere uscito dalla penna di Calvino, cercano nelle parole ad effetto pronunciate con determinazione, a scapito della qualità del loro discorso, la cura contro i dubbi che nutrono sul proprio destino. Che del populismo abbiano fatto la loro bandiera o meno, portano acqua al suo mulino.

Il populismo fa del popolo una massa anonima alla ricerca di un’autorità esautorante e deresponsabilizzante, crea una richiesta di ordine a prescindere da qualsiasi forma di dialogo democratico e di confronto. Distrugge la società civile e il legami solidali, rigetta il lutto e la trasformazione, sottomette l’etica alla morale normativa, il desiderio al bisogno e il senso di responsabilità alla colpa. Va, consapevolmente o meno, nella direzione di un potere dittatoriale. I suoi leader incarnano il segno del loro tempo, invece che il suo spirito: sono il sintomo di un morbo che ammala la storia, non la prospettiva nuova che sorge dalle contraddizioni di un’epoca al suo tramonto.

Il modo migliore oggi per aver fortuna politica in tempi brevi, è assecondare il percorso del morbo, la progressiva estinzione della memoria come strumento di esplorazione del futuro. Agli smemorati che guardano con l’angoscia l’avvenire, il rimedio che appare più efficace è il vivere nel mondo più ripetitivo e prevedibile, rigettare le novità e i cambiamenti. Sostituire i progetti di trasformazione strategici con piccoli aggiustamenti tattici (girare con abilità il mestolo sempre nella stessa zuppa), il che non esclude affatto le idee futuristiche (la sostituzione della storia con le favole), è il fortunato presente di molti dei nostri politici, non si sa per quanto ancora.

È priva di senso l’ambizione a essere il baluardo contro il populismo, se nel concreto il proprio progetto politico è l’alleanza con Berlusconi. L’erede più importante, notevolmente più di successo, di Guglielmo Giannini e del suo «Uomo Qualunque» e alleato di Salvini, il più becero dei populisti.

In circostanze, ahimè migliori di oggi, Ennio Flaiano ebbe a dire: «La situazione politica italiana è grave ma non è seria». Il suo giudizio, già valido allora, è oggi più vero. La combinazione della gravità con la mancanza di serietà riflette una condizione psichica di precarietà, una crisi collettiva delle identità che sfocia nel narcisismo delle piccole opportunità. Potenzialmente la più pericolosa delle situazioni.