Che senso ha ricevere ogni anno, questa volta a parlare è la Guardia di Finanza, la non notizia della mostruosa (tra i 50 e i 60 miliardi nel 2013) evasione fiscale per poi seppellirla il giorno dopo? E’ una pulsione sadica per forzare il limite della sopportazione di pensionati e dipendenti pubblici? E’ il meritato tributo per gli evasori che così, ogni anno, hanno un pubblico riconoscimento dell’autoriduzione fiscale che sono riusciti a realizzare? E’ il doveroso omaggio al Grande Evasore per aver rappresentato nel ventennio la categoria al più alto livello di governo?

Se le tasse sono il prezzo che paghiamo per avere scuole e ospedali, e solo una parte della popolazione è costretta a tenerli in vita nelle condizioni umilianti in cui sono, prendiamo coraggio e chiediamo di rafforzare il pacchetto delle riforme abolendo le un’ingiustizia programmata, strutturale, fondante dell’incivile convivenza che il paese sopporta da sempre e in eterno.

Per avere conferma dell’ineluttabile sconcio basta una breve sosta negli archivi e scoprire che siamo una repubblica fondata sull’evasione fiscale. Era il 1996, ministro delle Finanze Bruno Visentini, quando l’evasione fiscale, allora stimata in 250 mila miliardi di lire, faceva scrivere a Luigi Pintor che «un’evasione di queste proporzioni cessa di essere un reato o un danno per la comunità, o per uno Stato castrato e immeritevole e diventa regolatore o un incentivo, garanzia di consenso e di stabilità di governo».

Naturalmente non tutti gli evasori sono uguali, c’è, come ha detto qualche tempo fa l’ex viceministro dell’economia Fassina, «un’evasione di sopravvivenza», quella dei precari, delle partite Iva disoccupate, degli artigiani e dei piccoli imprenditori che falliscono perché lo Stato non paga il dovuto. I ladri stanno altrove, come inequivocabilmente dimostra il fatto che nell’ultimo decennio l’80 per cento dell’evasione è costituita da importi superiori ai 500 mila euro.

Ma allora è tempo che il segretario del Pd, anziché fare il grillino di secondo livello e dichiarare in tv «se passa la riforma avremo il Senato a gratis», convochi il bis di Berlusconi al Nazareno per completare «la profonda sintonia» con l’evasore di Arcore. Basta aggiungere al pacchetto già concordato il capitolo più importante, l’abolizione dell’articolo 53 della Costituzione, quello che obbliga (si fa per dire) a «concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva» perché «il sistema tributario è improntato a criteri di progressività».

Siamo seri, rispettiamo il paese reale, teniamo conto del consenso elettorale. Aiutiamo il ministro Saccomanni che annuncia la privatizzazione del 40 per cento di Poste, finiamola con questa usanza post-bellica che reca solo danno al dispiegarsi di un liberismo moderno e globale che vorrebbe privatizzare i beni pubblici e i servizi sociali dando una bella ridimensionata al modello europeo del welfare.

Noi italiani in questo campo non teniamo rivali, siamo all’avanguardia e potremmo farcene a buon diritto alfieri nel parlamento europeo che a primavera contribuiremo a rinnovare.