Non gli credono. O meglio non gli credono più visto che nel corso della legislatura gli hanno creduto ogni volta per poi ricredersi puntualmente. È successo anche sulla riforma costituzionale. La minoranza Pd ad oggi – visti i precedenti il complemento di tempo è doveroso – annuncia il suo voto contrario al referendum. Mercoledì in una riunione a Montecitorio arriverà la posizione ufficiale. Sono divisi fra falchi e colombe, ma ormai il loro «niet» è definitivo. Se la domenica, dopo il comizio alla festa di Catania, Roberto Speranza annuncia il suo no (ma «ad oggi», appunto), il lunedì in cui riapre la camera a casa dem le cose non sono migliorate. Anzi. La e-news inviata ieri agli iscritti dal segretario-presidente viene interpretata come un’altra presa in giro. Renzi giura sulla sua «disponibilità a cambiare la legge elettorale» e «a confrontarci in modo libero con tutti». Una beffa, tanto più che riaperto il Transatlantico ricominciano a circolare le ’notizie’ di provenienza Chigi. E così ieri c’era chi annunciava l’imminente «mandato esplorativo» ai capigruppo Zanda e Rosato per sondare le intenzioni dei partiti sull’Italicum. Ma è il classico ballon d’essai: sull’argomento le forze politiche sono divise e in ogni caso rimettere tutti intorno a un tavolo è l’ultima cosa che serve a un governo impegnato su una finanziaria che non indispettisca il cittadino-elettore alla vigilia dela prova referendaria.

I renziani neanche fanno mistero di essere contrari a «trattare» con la minoranza Pd. Avverte il vicesegretario Lorenzo Guerini: «Non saremo disponibili a leggi non chiare e che ci riportino alle larghe intese», «iniziamo a confrontarci ma i tempi sono legati alla disponibilità che troviamo nelle altre forze politiche in parlamento». Replica Pier Luigi Bersani dalla festa dell’Unità di Roma: male non parlare con la minoranza, dice, basta «segnali di fumo», «se resta così il mio sì alle riforme non c’è di sicuro», «l’Italicum va corretto radicalmente. Renzi dice che ’siamo pronti’ a modifiche? E chi la deve fare la proposta? La deve fare il governo, che deve prendere l’iniziativa come quando ha messo la fiducia». Bersani picchia duro sui rischi di un paese diviso: cita la Brexit e avverte che «si ballerà», «questo vuol dire dare un’occasione alla speculazione per spennare il parco buoi e, a chi vuole, di mettere le mani su pezzi del sistema». Quanto alle intenzioni delle forze del parlamento, si fa presto: Forza Italia non è in grado di affrontare il dossier, i 5 Stelle fanno muro a difesa dell’Italicum, formidabile regalo di Renzi al movimento. E alzano i decibel per coprire i loro guai. Luigi Di Maio, uscito malconcio dal caso Roma, attacca: «Oggi mi sarei aspettato il titolo dei giornali: Renzi schizofrenico. Ci ha detto che la legge elettorale era un modello e ora vuole cambiarla».

Sulla strategia del premier fa ironia Pippo Civati: «Prima vedere sì, poi eventualmente ti faccio vedere il cammellum». È così, e non da ieri: il presidente ha intenzione di aspettare il verdetto della Consulta (il 4 ottobre si terrà la prima seduta sull’Italicum), e quello degli elettori. Poi si vedrà. Intanto fa solo fumo. Il referendum, sottolinea con finta ingenuità nella sua lettera, «non riguarda legge elettorale», «se non ci credete, leggete il quesito». Un’altra presa in giro per chi parla del «combinato disposto» fra riforma e legge elettorale.

Il gioco del temporeggiamento ormai è scoperto e sfacciato. E così neanche la minoranza Pd è arrivata a un punto di non ritorno: o di qua o di là. Federico Fornaro, estensore della proposta detta “bersanellum” è piccatissimo: «Nel suo discorso a Catania Renzi non ha fatto nessuna apertura nel merito delle modifiche dell’Italicum e si è dimenticato di parlare della legge elettorale per la scelta dei senatori», tema su cui i bersaniani hanno tentato una trattativa. Altro che appello all’unità, presegue il senatore: il segretario ha parlato «da capo dei renziani» e «ha alimentato rancori e divisioni», insomma: «Così non si va da nessuna parte, anzi si porta il Pd a sbattere». Il che però vale anche per la minoranza Pd: un no tondo a Renzi è una scommessa per il dopo. E la quota di rischio è alta.