Sociologo di fama, il tedesco Wolfgang Streeck si è imposto nel dibattito internazionale con Tempo guadagnato (Feltrinelli 2013), uno dei libri sulla crisi economica più letti e discussi. In Germania è vicino alle posizioni di Aufstehen, il movimento della capogruppo uscente della Linke, Sahra Wagenknecht. Lo abbiamo incontrato a Torino, ospite della Biennale democrazia.

Professore, il 26 maggio si vota nella Ue. Per cosa deve battersi la sinistra europea?

È difficile risponderle, perché non credo si possa sviluppare una strategia della sinistra nell’ambito della Ue. Il vero potere legislativo è diviso fra il Consiglio e la Corte di giustizia, quindi il voto per il parlamento di Strasburgo non avrà conseguenze politiche, anche se popolari e socialisti dovessero perdere la maggioranza.

Eppure lei è stato da poco a Madrid e ha incontrato il gruppo parlamentare di Podemos.

Sì, ma con loro non ho parlato delle elezioni europee. A mio avviso, la sinistra in Europa deve cercare di riconquistare spazi di azione democratica per i popoli. L’Ue è una comunità di governi ed élite nazionali che agiscono a livello continentale per poter realizzare politiche di austerità, sottraendosi alla responsabilità di fronte agli elettori. I popoli della periferia che si ribellano, come in Grecia, poi vengono puniti. Per interrompere questo ciclo serve una radicale democratizzazione di fronte a un’istituzione tecnocratica come l’Ue.

Che lei ritiene irriformabile.

Esatto. È un regime istituzionale talmente strutturato da essere immodificabile. Io credo in una rifondazione dell’unità europea, in un nuovo inizio. L’Ue è nata nell’epoca neoliberale, abbiamo bisogno di istituzioni per l’epoca post-neoliberale. Occorre un sistema di relazioni non verticale, dove il centro comanda sulla periferia, ma orizzontale, con un recupero di autonomia degli stati.

Ri-nazionalizzare la politica, però, non è di per sé un’opzione «di sinistra». Anzi, appare piuttosto il contrario.

Non ho mai capito questo genere di critica alle mie tesi. Noi viviamo oggi in stati nazionali, anche se stiamo nell’Ue. La crisi del 2008 è stata gestita da due stati nazionali, la Germania e la Francia, che hanno imposto le loro ricette secondo un modello imperiale. Quello che chiedo è che i governi nazionali tornino a essere politicamente responsabili di fronte ai cittadini: non sostengo la ri-nazionalizzazione della politica europea, ma la ri-democratizzazione della politica nazionale.

Secondo lei, quindi, chiedere un’Europa sociale è illusorio?

Contrastare la tendenza fondamentale del capitalismo alla concentrazione della ricchezza nel centro a scapito delle periferie è giusto, e da vecchio militante di sinistra mi pongo il problema degli strumenti per attuare una politica egualitaria. L’Ue non è fra questi: bisogna conquistare spazi di azione ‘in basso’ in cui realizzare politiche sociali. Proposte come un’assicurazione europea contro la disoccupazione non sono realistiche, perché presuppongono un mercato del lavoro comune che oggi non c’è. Gli stati devono invece riacquisire la possibilità di un’autonoma politica monetaria. Ora c’è una moneta tedesca che è stata introdotta per tutta l’Europa, senza un governo centrale di tutti.

Ci si potrebbe battere per quello, per un governo europeo democraticamente legittimato.

Ma non potrebbe funzionare. Non c’è nella storia alcun esempio di stati che si siano volontariamente uniti rinunciando alla sovranità.

Ma nonostante ciò noi di sinistra siamo internazionalisti.

Un momento, capiamoci. Nella tradizione del socialismo non c’era l’obiettivo di una «internazionale degli stati», ma dell’internazionale dei lavoratori affinché i capitalisti non li mettessero gli uni contro gli altri, come invece avviene oggi. Lo dico con una battuta: negli anni ’70 noi inviavamo le armi ai vietcong, non lottavamo perché potessero venire in Germania dal Vietnam.

Lei non condivide la parola d’ordine «confini aperti».

Esatto. Io sono favorevole a una politica per l’immigrazione, che è una cosa diversa. La Germania ne ha bisogno, è fuori discussione. Sostenere politiche per l’immigrazione significa guardare alla società nel suo complesso, dire «confini aperti» è un approccio individualistico. O siamo noi, la sinistra, a trovare soluzioni umane e sostenibili socialmente alle migrazioni, o saranno altri a trovarne. E non saranno soluzioni umane.

In Germania l’era Merkel volge al termine. Potrà venire il tempo di un governo progressista?

La sinistra deve trasformarsi, raggruppandosi diversamente, altrimenti scompare. Io ovviamente mi auguro un cambio di governo, ma non bisogna illudersi: anche una coalizione fra Verdi, socialdemocratici e Linke dovrebbe fare i conti con le difficoltà strutturali di realizzare politiche sociali. Se non si mette in discussione il vincolo del pareggio di bilancio, spazi di manovra non ce ne saranno. E attualmente la Spd non mi sembra che voglia davvero rompere con il neoliberismo: uno dei più stretti collaboratori del vicecancelliere Olaf Scholz è l’ex presidente della filiale tedesca di Goldman Sachs.

Che ruolo possono giocare i sindacati tedeschi?

Serve un bilanciamento della politica economica della Germania: meno esportazioni, più mercato interno. Il problema è che il sindacato dell’industria, la Ig-Metall, è stato in questi anni unito in un blocco con il padronato e con il governo per favorire le esportazioni, contenendo i salari. Deve acquisire maggiore peso il sindacato dei servizi, cioè di quella parte di economia che non è orientata all’export, ma alla domanda interna. Ne deriverebbero conseguenze positive per tutta l’Europa. È un cambiamento possibile, ma difficile.