In quella che potremmo definire la sinistra britannica «extralabour» il dibattito sull’indipendenza travalica i confini angusti della critica ortodossa al nazionalismo. Tale dibattito è riassumibile in questi termini: l’attuale coalizione, capitanata dalla premiata ditta Cameron & Osborne, che sta proseguendo imperterrita nello smantellamento di quel welfare state che dal secondo dopoguerra si era reso garante di una relativa pace sociale, non è che l’ultima di una serie di maggioranze che, nel centrodestra come nel centrosinistra, si avvicendano in tale smantellamento. Urgeva una via di fuga da un simile destino già scritto. L’indipendenza scozzese potrebbe esserlo.

Poco importa che siano i nazionalisti a propagandarla.
Se ne sono resi conto in tanti nella sinistra britannica. Personaggi come come Billy Bragg, Tariq Ali e Irvine Welsh, artisti e intellettuali tutti riconducibili alla sinistra del Labour, hanno ripetutamente dichiarato il proprio sostegno per l’indipendenza, pur prendendo le distanze da un certo lezzo nazionalista ortodosso che si leva da alcune fila del fronte Snp.

Significativa, a questo proposito, la posizione del singer-songwriter inglese Bragg. Dalle colonne del sito del Guardian, ha risposto alle accuse di tradimento della solidarietà internazionale della working class. Ha ammonito coloro che a sinistra – pur giustamente – aborrono qualunque forma di nazionalismo, invitandoli a non chiudersi nell’asfittica gabbia di un internazionalismo a tutti i costi. Ma soprattutto, ha confutato i paragoni strampalati fra il nazionalismo etnico dei fascisti del British National Party e quello civico del fronte scozzese del sì, che esprime una congerie di realtà politiche antagoniste che travalica il Snp.

«Il nazionalismo etnico del Bnp è visibile a tutti: il piano per una società che esclude le persone su basi razziali. Il programma del Snp ha una posizione diametralmente opposta: è per una società inclusiva basata su dove ti trovi, non da dove vieni».

Nel motivare la propria adesione al sì, Neal Ascherson, giornalista scozzese allievo di Eric Hobsbawm, ha scritto sul quotidiano scozzese Herald: «La guerra in Iraq e Tony Blair mi hanno dimostrato che il Regno Unito non è più un paese indipendente; la campagna referendaria ha rivelato che molti scozzesi stavano rompendo la gabbia di impotenza e dirigendosi verso l’indipendenza che avrebbe portato alla grande scelta: che Scozia vogliamo?»

Da critico dell’establishment di lungo corso, Tariq Ali ha affidato i suoi commenti a un intervento sulla London Review of Books: «La Scozia è una nazione da lungo tempo» ha scritto in una editoriale collettivo, «Scopriremo presto se i suoi cittadini desiderano ora che la nazione diventi Stato. Spero di sì. Non solo aprirà nuove opportunità per il loro Paese, ma romperà lo Stato britannico atrofizzato e decadente e ne ridurrà l’efficacia come vassallo degli Stati Uniti. Questo spiega gli appelli di Obama e Hillary Clinton a votare no, un sentimento che Blair condivide appieno, ma che non osa ammettere nel timore di dare impeto alla campagna avversa».

Per poi aggiungere: «La notevole crescita del movimento pro-indipendenza è il risultato dello smantellamento del welfare state da parte di Thatcher e dell’ammirazione che per esso hanno avuto Blair e Brown. Fino allora, gli scozzesi erano pronti a restare con il Labour nonostante la corruzione e ribalderia che caratterizzava la macchina del partito in Scozia. Ora non più».

Dal canto suo, lo scozzese Welsh ha scritto un appassionato intervento su Time: «Qualunque sarà il risultato, sarà quella minoranza turbolenta, litigiosa e compassionevole degli scozzesi a prevalere, e in modo del tutto straordinario. Con una percentuale d’iscritti al 97%, mai vista nel mondo occidentale, hanno mostrato che una potenza del G7, impelagata com’è in un modello di globalizzazione neoliberista, può subire una sfida, una rottura. E l’istituzione di una democrazia vibrante e non militarizzata»