«Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco». Parte da queste parole di Josef Koudelka, il coraggioso fotografo dell’invasione sovietica di Praga, il saggio «A fattor comune» (Edizioni Bordeaux, da lunedì in libreria) un’incalzante e partigiana riflessione sulla sinistra che si misura con il «fare», e cioè il governo, a qualsiasi latitudine: dal cortile di casa nostra all’altro mondo; dai comuni di Madrid, Barcellona e Milano alla cruciale Grecia di Tsipras, all’Uruguay di Mujica, ai curdi di Kobane, eroici solitari combattenti sul fronte dell’Europa contro l’Isis. Perché, come dice appunto Koudelka, bisogna guardare altrove per poter vedere davvero quello che c’è a casa nostra. E che l’abitudine, la pigrizia – e le incrostazioni ideologiche – spesso non fanno più vedere.

Si tratta di un catalogo ragionato delle esperienze compiute, pratiche sociali e amministrative della sinistra del ’si può fare’. L’autore, Massimiliano Smeriglio (oggi vicepresidente della Regione Lazio e scrittore noir, ieri assessore alla provincia di Roma, l’altro ieri militante di Sel, prima di Rifondazione e prima ancora della sinistra radicale romana), lo compila con orgoglio di parte, ma anche provando a non tacerne i limiti. In alcuni casi, vedremo poi, persino facendo profonda autocritica.

Premessa una lunga analisi sull’Europa, sul renzismo e sui populismi, il core business del ragionamento è il confronto ruvido in corso a sinistra. Nel quale l’autore entra a gamba tesa e con parole esplicite. Perché, è il senso, la sinistra è fatta di tante culture spesso in dissenso fra di loro, ma è stucchevole l’ipocrisia ecumenica di chi mette tutte le militanze sullo stesso piano: Sel, il partito in cui Smeriglio milita e di cui è dirigente, ha un patrimonio di «nessi amministrativi, militanti, gruppo parlamentare e centomila cittadini che hanno deciso di finanziarla con il due per mille». Oggi per la sinistra è finito il tempo dei sani propositi e quello dei cattivi esempi: non è più il momento della liturgia buonista e unitaria. E per Sel ora si tratta di «decidere collettivamente e in fretta quale ruolo giocare».

Una scelta guidata dal filo di Arianna delle esperienze internazionali e nazionali. Un filo che si dipana in un percorso non facile fra «apocalittici integrati», e cioè «gli arresi che accettano le compatibilità e si muovono nel solco della riduzione del danno» e «apocalittici disintegrati», quelli che «constatata l’impraticabilità di campo, alludono a rotture rivoluzionarie, tifano per i riot e le rivolte metropolitane». I riferimenti ai protagonisti e alle analisi in circolazione sono evidenti.

In mezzo, fra gli uni e gli altri, ci sono «i popoli, i corpi intermedi, i conflitti, gli urti, i progetti sostenuti dalla coscienza di luoghi. E i sindaci di tante città grandi e piccole» appunto Madrid, Barcellona, Milano, Genova, Cagliari, Rieti e le altre. L’unica strada per comporre le differenze è il «vincolo di popolo»: «più la sinistra è ferma, ideologica, lontana dal vincolo di popolo, quindi in sostanza elitaria, (…) e più fratture e scissioni sono dietro l’angolo». È la chiave per ogni decisione del percorso unitario in corso: la prima, la più vicina – e diciamolo, la miccia accesa sotto il tavolo della cosiddetta ’cosa rossa’ – è il voto di primavera. «Chi pensa di utilizzare le amministrative per contarci in un processo a freddo di antagonismo al Pd anziché misurarci con un progetto città per città sbaglia», «alle amministrative si misura l’internità alla comunità locale e la credibilità delle persone e del progetto politico», scrive l’autore rispondendo a un’intervista del manifesto allegata al saggio. È la cultura politica «l’oggetto più delicato della contesa nel nuovo cantiere».

E al capitolo cultura politica apriamo una parentesi su un’autocritica destinata a suscitare malumori anche nel suo partito. L’autore torna sul ’98, anno cruciale per la sinistra italiana, quando la Rifondazione di Bertinotti si intestò orgogliosamente la caduta del governo Prodi. Smeriglio, all’epoca giovane dirigente e tifoso della ’rottura’, oggi la pensa diversamente: «Un errore drammatico (…) in una società fragile come quella italiana, quel governo era un’opzione vera di costruzione di un campo democratico in cui la sinistra poteva svolgere la sua funzione». Una riflessione su ieri che parla all’oggi, forse anche a domani. Anche per questo il saggio piacerà ad alcuni e dispiacerà ad altri, e parecchio. Ma è una riflessione che ha il pregio di essere esplicita perché ormai, vi si legge, «c’è bisogno di chiarezza senza tatticismi. C’è bisogno di una battaglia politica a volto scoperto, sana e dispiegata».