Un gruppo di uomini è entrato ieri mattina nella sede del partito di sinistra filo-kurdo Hpd a Diyarbakir per denunciare la scomparsa di un compagno che venerdì stava partecipando all’immenso assembramento di Station (la stazione ferroviaria cittadina). Due ordigni sono esplosi al comizio del leader carismatico, Salahattin Demirtas. Nella notte di venerdì il triste bilancio dell’attacco ha chiarito il grande ostacolo che gli attentati di Diyarbakir hanno posto sulle aspirazioni per un processo di pace tra kurdi e governo turco: 4 morti e 350 feriti di cui novanta gravi (alcuni hanno perso gli arti nelle esplosioni), bilancio tra i più sanguinosi degli ultimi anni.

Per forzare la folla a lasciare il raduno la polizia ha lanciato lacrimogeni e ha usato gli idranti mentre i cordoni della sicurezza si aprivano per far passare i feriti (nella foto, Lapresse). La seconda esplosione che ha ucciso i manifestanti è avvenuta proprio lungo la via di fuga degli attivisti dell’Hdp. Pesa come un macigno il silenzio dei sostenitori del partito islamista moderato Akp (Kemal Kiliçdaroglu, leader del secondo partito turco i kemalisti di Chp, ha espresso invece il suo cordoglio), mentre il premier Ahmet Davutoglu ha definito le due esplosioni un atto di «provocazione».

Secondo fonti vicine all’Hdp dal 23 marzo a oggi sono quasi duecento gli attacchi a comizi e incontri del partito (molti dei quali non denunciati perché avvenuti nei villaggi). Alcuni attivisti di Hdp sono stati linciati da uomini in borghese e le bombe di Adana e Mersin sono considerate da molti come possibili attentati alla vita di Demirtas. Una strategia per dividere i turchi tra nazionalisti e simpatizzanti della causa kurda ben nota da queste parti ma rimandata al mittente con chiara umanità dallo stesso leader non violento. Nei suoi discorsi Demirtas ha sempre puntato sull’inclusione all’interno della sua sinistra post-moderna che conta sul sostegno di ong, partiti filo-kurdi, marxisti, ecologisti, difensori dei diritti delle donne, sostenitori dell’inclusione delle minoranze.

Anche stavolta la polizia ha proceduto ad arresti sommari. Alcuni sostenitori del Partito kurdo dei lavoratori (Pkk) sono stati prelevati ieri all’alba a Istanbul, si tratterebbe in molti casi di rappresentanti di Hdp. Le forze di sicurezza hanno effettuato le operazioni con l’ausilio di mezzi blindati nei quartieri asiatici di Cekmekoy e Sancaktepe, dove si è svolto nel pomeriggio di sabato il comizio di chiusura della campagna elettorale di Demirtas.

Non si può liquidare in due giorni una battaglia di quaranta anni. E gli attacchi di venerdì a Diyarbakir anziché scoraggiare hanno motivato un elettorato estremamente politicizzato che porta dovunque un segno distintivo dell’Hdp (bandiere, magliette, ascolta gruppi Rojava pop come i Bigi Ypg).

E così tutti si sono voltati al meeting di venerdì quando dal palco è stato pronunciato il nome di Erdogan in riferimento alla campagna lanciata dalle donne turche su Twitter che ha subito impazzato tra i movimenti per protestare contro le discriminazioni dell’Akp. E non sono mancati riferimenti alle contestazioni di Gezi Park del 2013. Dopo gli attacchi di venerdì si sentivano nei capoluoghi del Kurdistan dappertutto pentole e cucchiai battere sulle ringhiere dei balconi in segno di protesta non violenta, fino alla richiesta di Demirtas di ritorno alla calma.

E poi i funerali delle vittime di sabato mattina si sono trasformati in cortei anti-Erdogan. Anche la proposta di abolire il sistema di finanziamento delle moschee turche (Diyanet) e l’appoggio alle campagne per la difesa dei diritti omosex sono state citate in campagna elettorale da Erdogan per screditare Hdp. Tuttavia, secondo la Costituzione turca vigente il presidente della Repubblica dovrebbe essere una figura super partes. Erdogan ha indossato invece le vesti dell’uomo di parte dilagando nelle tv turche con un’invasione mediatica stimata intorno all’80% rispetto agli altri candidati. Forse i turchi dopo la grave repressione poliziesca di Gezi reagiranno diversamente agli attacchi contro i kurdi delle ultime ore. Secondo i sandaggi il partito islamista moderato di Erdogan si attesterebbe intorno al 43% ben al di sotto del successo elettorale del 2011 (50%). Un presidente autocrate, desideroso solo di accrescere i suoi poteri, chiuso nella sua turris, composta da centinaia di stanze e costata miliardi di euro, non sembra entusiasmare l’elettorato turco. Si stanno recando alle urne quasi 54 milioni di turchi (più due milioni di residenti all’estero) per un decisivo referendum pro o contro Erdogan.

Si vota in 81 province per eleggere 550 parlamentari. La maggioranza che cerca Erdogan si attesta a 330 seggi. Per questo il vero ago della bilancia che tiene tutti con il fiato sospeso resta il superamento della soglia del 10% da parte del partito di sinistra Hdp.