Nell’intervento di Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga (il manifesto, 17 dicembre) c’è una parola che ritorna con una insistenza quasi sintomale: è la parola “potenza”. Sul tappeto viene infatti messa dai due autori la questione della potenza della politica che sarebbe stata compromessa, se non addirittura esautorata, da una concezione “debole” della politica, ridotta a mera amministrazione del presente, senza “orizzonti”, “nell’illusione che il sistema della delega (…) possa garantire una democrazia compiuta”.

La pandemia avrebbe accelerato un processo di depoliticizzazione, già in atto da tempo, esautorando ulteriormente la dimensione partecipativa e lasciando che l’agenda sia fissata da istanze sovrane esterne allo spazio politico. Il fatto che, ad esempio, con la pandemia la salute diventi la posta in gioco nel dibattito pubblico non farebbe che confermare l’ipotesi foucaultiana di un potere che, deposta la sua arcaica veste disciplinare, si risolve in una gestione meramente calcolante della “nuda vita”.

A dispetto del suo attuale esaurimento, un movimento come quello delle “sardine”, viene allora evocato da Ardeni e Bonaga come qualcosa di più di una mera “reazione” a questo processo che si realizza su scala mondiale. Da esso si possono trarre insegnamenti ancora validi. La novità di quelle piazze affollate di corpi vivi, di cui oggi sarebbe per altro impossibile pensare la replica, era data dal fatto che in esse non c’era (o, almeno, non c’era soltanto) la tradizionale testimonianza di un disagio ma l’affermazione alla prima persona di un desiderio attivo di partecipazione. In quelle piazze c’era della potenza in atto e non il buon vecchio utopismo della sinistra radicale. Non è un caso se poi, in quella particolare situazione, le sardine ne siano uscite vincenti, mentre l’utopismo di sinistra, ad ogni latitudine, risulta invece sistematicamente sconfitto quale che sia la battaglia che intraprende.

C’è un dato sul quale, credo, si debba riflettere. In questi ultimi decenni la sinistra radicale (ma non solo quella radicale) ha costruito la propria identità teorica esorcizzando sistematicamente la potenza. Troppo simile al vituperato Potere con la maiuscola a capolettera, la potenza risulta “per se stessa” sospetta alla sinistra. Le conseguenze di questo esorcismo sono esiziali sul piano politico. Esse spiegano, a mio parere, “l’entropia della Politica presente” denunciata da Ardeni e Bonaga.

Potenza significa infatti azione, azione determinata. Potenza, nel suo livello elementare, significa fare “questo” “qui e ora”. Potenza è necessità di agire, senza dilazione, come sanno da sempre i militanti rivoluzionari, che sono tali proprio perché, da buoni confuciani, sanno che la loro seconda vita di “militanti” è iniziata quando si sono resi conto che c’era una sola vita da spendere, e cioè che il possibile era “ristretto”, che esso aderiva punto a punto al reale.

Una potenza che non agisse restandosene in pausa non sarebbe potenza, semmai sarebbe una capacità astratta, una possibilità che si libra nell’aria senza lasciare tracce nella realtà concreta. Di questa potenza senza carne, cara ai filosofi scolastici del XIV secolo, si è tuttavia innamorata la sinistra al punto tale da eleggere, in alcuni dei suoi massimi teorici, il “preferirei che no” dello scrivano Bartleby del racconto di Melville a campione di un potere “destituente”. Un potere destituente è un potere che ha nella negazione astratta il suo perno.

Nelle parole di Ardeni e Bonaga ritrovo invece, forse forzando il testo nella direzione di un mio desiderio, una insofferenza per la fascinazione esercitata da impotenza e negazione (e, aggiungerei, “disperazione”) su un certo milieu intellettuale mainstream. La loro proposta è l’ “isocrazia”. Ma cosa significa questa strana parola greca che letteralmente vuol dire “uguale forza”? “Isocrazia”, scrivono, significa “immissione di potenza (opzioni, azioni, presa in carico responsabile, progettualità), di una cittadinanza partecipante”. “Partecipazione” è un lemma dalla storia straordinaria. Raccontarla richiederebbe interi volumi, tuttavia il suo senso è semplice: partecipazione significa affermazione parziale, partecipazione significa azione efficace. Partecipare vuol dire causare degli effetti di trasformazione, effetti che sono al tempo stesso degli affetti, dei gradi di intensità vitale.

Siccome nessuno può tutto, nemmeno Dio, la potenza è però sempre “parte”. Dalla partecipazione così intesa si genera l’idea classica di “partito” che non significa “parte di un tutto”, ma, appunto, potenza attiva, libera creazione di possibilità che non sarebbero date senza l’atto reale che le genera. I tanto bistrattati partiti non sono allora, come invece si suole ripetere, articolazioni della società civile. Quando lo divengono scadono a livello di lobbies portavoce di interessi corporativi.

Nella sua forma classica, che avrebbe oggi ancora molto da dire, il partito è invece partito “d’azione”. È un generatore di reale, non è il traduttore istituzionale di una istanza prepolitica. Che l’ideologia della sinistra radicale converga con quella della destra radicale nella comune convinzione dell’inutilità del sistema dei partiti – e, più in generale, nella liquidazione dei cosiddetti “corpi intermedi” – è allora un preoccupante segno dell’ “entropia della Politica presente”. L’entropia della Politica è l’entropia della potenza.

Al termine di questo processo di degradazione si trova l’impotenza eletta a principio sovrano del reale, cioè il nostro presente né più né meno, nel quale il problema non è tanto “cosa fare” (questo lo sappiamo tutti benissimo: il clima, l’uguaglianza, i diritti ecc.) ma “come farlo”, dal momento che nulla si può fare con il solo potere astratto di negare.