A distanza di cento anni da quando Lenin ne scrisse, a sinistra c’è ancora chi non riesce a guarire dalla malattia infantile di sempre: l’estremismo autoreferenziale. Che, nonostante una lunga e dolorosa serie di sconfitte e lacerazioni, porta tuttora a scelte, minoritarie, pavloviane. Infantili, appunto.
Vedere i risultati raggiunti alle elezioni amministrative da alcune liste, sigle, raggruppamenti (definirle “forze” potrebbe sembrare irridente), della sinistra radicale provoca più sconcerto che stupore. Perché già altre volte hanno dimostrato un’assoluta inconsistenza, e quindi non sorprendono i penosi, deprimenti risultati ottenuti in varie città. Ma stavolta è stata superata ogni logica politica, dimenticato il buonsenso, fino a sconfinare nel ridicolo.

Non mi riferisco alle aree politiche legate in particolare a Sinistra italiana, come anche a liste tipo Coraggiosa, creata da Elly Schlein, o a esperienze come quella di Riccardo Laterza a Trieste, che invece hanno ottenuto risultati dignitosi, raccontati nell’articolo pubblicato ieri, bensì a quel piccolo mondo antico immobile nella conservazione della propria identità: gli esempi della disfatta di queste liste, da Milano a Roma, parlano da soli.
Purtroppo non basta un passato di impegno politico e una militanza nel territorio per convincere gli elettori a sostenere organizzazioni che, alla prova dei fatti, non superano lo zero virgola di voti.

E se pensiamo che perfino esperienze amministrative positive (come Giovanni Caudo a Roma che ha ottenuto appena il 2 per cento con una lista di appoggio a Gualtieri), non raccolgono ampi consensi, chi vuole testimoniare una presenza di sinistra radicale dovrebbe chiedersi perché il proprio progetto subisce, e da molti anni ormai, sconfitte davvero umilianti.
Le liste che si comportano come i 4 amici al bar che volevano cambiare il mondo e che invece di restare seduti per bere un caffè, si presentano alle comunali con la proposta inverosimile dei candidati sindaci, forse dovrebbero chiedere scusa a quei pochi elettori che magari ci hanno creduto e li hanno votati. E anche chi li ha votati dovrebbe riflettere su scelte certo consolatorie ma altrettanto perniciose e impotenti a mutare lo stato di cose presenti.

Questo non vuol dire che non rispettiamo chi mette in gioco la propria storia, in nome di un ideale. Ma proprio perché crediamo che alcuni valori, idee, speranze devono non sopravvivere bensì essere al centro di un possibile cambiamento, servono gambe più forti, unità di intenti, serve dare forma alle tante esperienze vissute e ancora vive. Mettendo da parte personalismi, medaglie politiche, ambizioni velleitarie, barricate ideologiche costruite sulla carta. Superando infine l’idea che potrebbe anche bastare una sommaria unità delle differenze e delle lotte sociali perché dall’alambicco possa crearsi magicamente una forza larga, di sinistra radicale del 10%.

Noi del manifesto, fin dalla nascita, cinquant’anni fa, siamo minoranza. Che tuttavia è altra cosa dall’essere minoritari, perché cerchiamo di rappresentare una significativa comunità di donne, uomini, anziani, giovani, che possono e vogliono lottare insieme senza dividersi in mille, inutili, rivoli. E fino a quando avremo il sostegno di chi ci legge e ci sostiene, continueremo a batterci perché la sinistra, anche la più radicale, abbia lo spazio e il riconoscimento che merita. Certamente superiore allo zero virgola.