Qualcuno con aria di sufficienza, la definisce «la sinistra degli appelli», con l’intenzione di svalutare tanto la forza politica così designata, che queste espressioni di critica o di proposta che compaiono di frequente sulla stampa e sui siti. Vorrei mostrare che la sottovalutazione è errata in entrambi i casi.

GLI APPELLI CERTAMENTE non cambiano il mondo (lo cambiano i nostri partiti?), ma costituiscono una modalità di partecipazione di gruppi di cittadini al dibattito pubblico su determinate questioni. Dunque una espressione importante della democrazia. Quanto alla sinistra è forse il caso di fare una riflessione meno superficiale sulle sue dimensioni, caratteri e modalità di espressione.

Perché se è vero che essa è quasi ridotta all’impotenza sul piano partitico-parlamentare, non così si può dire della sua realtà effettiva nel Paese, che non si misura numericamente con la quantità dei voti. Né così si può dire sul piano della creatività ed elaborazione teorica e culturale, dell’influenza sul piano ideale presso settori ampi dell’opinione pubblica, sul suo radicamento locale in tante realtà del paese, sia pure in forma di gruppi dispersi.

Se si guarda poi all’aspetto culturale della sinistra – da non identificare con le posizioni di democrazia liberale, che possono costituire una sua base di partenza, ma non l’esauriscono – non si può non cogliere una ricchezza di voci, organi, manifestazioni, che contraddicono la fragilità della sua corrispondente espressione politica.

ESISTE INFATTI QUELLA che io definirei una sinistra collaterale, che costituisce il paradosso della situazione italiana e che si esprime in una molteplicità davvero singolare di voci. Senza nessuna pretesa, neppure di abbozzare una rassegna, direi che si va da una realtà storica come il manifesto – che la legge dei 5S sull’editoria vorrebbe stoltamente punire – a riviste che vantano molti anni di vita come Micromega, Internazionale, che dal ’93 fa entrare i problemi del mondo nel dibattito italiano, lo statunitense Huffington Post, che ha una versione italiana grazie al gruppo editoriale dell’Espresso, così Jacobin, Left attiva dal 2006, in Comune, la recentissima Luoghi comuni (Castelvecchi), sino alla moltitudine di siti, sia specialistici, come Sbilanciamoci per i temi economici, Eddyburg e Carte in regola, dedicati all’ambiente e all’urbanistica o più generali come Officina dei saperi e Osservatorio del Sud, o di quelli che conducono campagne di varia natura come Change.org.

NATURALMENTE occorrerebbe mettere nel conto, oltre alla loro pubblicazione libraria, la collaborazione di molti intellettuali a organi di stampa che non so quanto amano definirsi strettamente di sinistra, come il Fatto quotidiano, o che sono semplicemente liberal-democratici come Repubblica. Ricordo che a lungo su questo giornale esprimevano posizioni anche radicali collaboratori fissi come Alberto Asor Rosa, Stefano Rodotà, Luciano Gallino, Salvatore Settis e da ultimo Tomaso Montanari. Così come almeno un accenno andrebbe fatto alle mille iniziative che singoli e gruppi intraprendono nei vari angoli della Penisola, nelle scuole, nelle università, in luoghi pubblici con convegni sui temi più vari del nostro tempo.

Ma l’elenco è ancora incompleto: come dimenticarsi di Libera, dell’Anpi, dei circoli dell’Arci, dei gruppi di Altreconomia, dei diversi centri sociali, delle organizzazioni culturali e ambientaliste? E non includiamo le Camere del Lavoro e le organizzazioni territoriali del sindacato, perché oggi non sono politicamente omogenee.

PERCHÉ RICORDO sommariamente tali realtà? Non certo per tornare a invocare la nascita di nuova formazione politica. Tale progetto non è alle viste. Finché esso si porrà a ridosso di elezioni, per iniziativa dei frantumi dei vecchi gruppi politici, e senza un precedente movimento di lotta popolare, non avrà speranza. E tuttavia non ci si può non porre la domanda: se questa sinistra collaterale che costituisce quasi l’unica fonte innovativa di produzione teorico-politica dell’Italia, che non trova ascolto nel Pd e non si traduce in iniziativa politica nei gruppi radicali, deve limitarsi a una esclusiva azione culturale?

Non è possibile che attraverso un paziente lavoro di tessitura organizzativa dia vita, di tanto in tanto, a singole forme di mobilitazione che coinvolgano i cittadini, con una capacità di incidenza che superi quella – pur meritoria – dei comitati locali? Potrebbe nascere così una forza politica che non assomiglia alle forme partitiche tradizionali, carsica e liquida quanto vogliamo ma capace di imporsi all’opinione nazionale, di volta in volta, con singole campagne. Ricordo che una ragazzina di nome Greta ha sconvolto in poco tempo la geografia dei movimenti di massa.

ANCORA UNA VOLTA sottolineo che davanti a noi abbiamo un obiettivo di prima grandezza, che ancora molti intellettuali di sinistra non hanno afferrato nella sua potenzialità: la secessione dei ricchi, denominata dalla Lega, per truccare le carte, autonomia differenziata. Potrebbe costituire la più grande battaglia unitaria dopo la Resistenza, perché si opporrebbe alla disgregazione dell’Italia e alla dissoluzione del welfare nazionale, difenderebbe le autonomie dei comuni e la Costituzione, metterebbe il Mezzogiorno al centro della lotta contro il declino dell’Italia. Grazie a un impegno su tale terreno il fenomeno Salvini potrebbe ritornare alle sue vecchie dimensioni regionali.