Fräulein – Una fiaba d’inverno recita il sottotitolo del film d’esordio di Caterina Carone che non prende la scorciatoia della commedia e rifugge dal dramma a tinte fosche. Il suo è un racconto che comincia proprio come una favola, con tanto di voce fuori campo da «c’era una volta» che illustra la situazione, caratterizzata da una tempesta magnetica che sta sconvolgendo il pianeta, mettendo in crisi tutte le nostre piccole certezze elettriche da cui derivano computer e internet. Tempesta che si abbatte anche sul paesino immaginario, italiano ma di madrelingua tedesca, dove vive Fräulein. In realtà si chiama Regina, come l’alberghetto di famiglia, ormai chiuso, anche se lei vive ancora lì.

Il soprannome di signorina è un modo per definirla perché non solo non si è mai sposata, quindi per dirla come un tempo è rimasta signorina (detto con quella venatura tra il disprezzo e la canzonatura), ma soprattutto è ruvida, scontrosa, solitaria se non si occupasse di accudire qualche anziano e di giocare a carte con due compaesane. Stravede per lei il postino (quello della Valgardena che baciava solo con la luna piena?) che pare uscito da uno di quei film georgiani a tasso elevato di scombinati, mentre l’unica vera amica è Marilyn, la sua adorata gallina.

Sinché un giorno arriva Walter, un turista assolutamente intenzionato a rimanere nell’albergo, nonostante le rimostranze risentite di lei. Due solitudini, due persone ferite dalla vita, ma non è sull’aspetto tragico che la regista punta, sì certo le foto dei genitori di Fräulein appese come santini e altre tristezze incombono, ma non è quello il punto. Quanto più lei cerca di cacciare quel capoccione sbucato dal nulla, tantopiù lui si intestardisce e qualcosa dovrà pur succedere, complice il magnetismo solare.

Ma non tutto è lineare e prevedibile, talvolta si affacciano momenti stravaganti come una poesia recitata in un bar per polemica contro pregiudizi e luoghi comuni e un sacerdote che interrompe la messa per rispondere al telefonino.

Se l’ossatura del racconto è data, a rimpolpare ci pensano gli interpreti. Christian De Sica dimostra di essere in grado di accantonare le sue macchiette per dare energia a un uomo che dimostra invece di averla persa e da questo punto di vista sembra davvero una trasfusione di intenti dai suoi personaggi sopra le righe a quel povero cristo di Walter. Lucia Mascino non ha problemi, è perfettamente calata nella parte di chi si è costruita una gabbia e non ha alcuna intenzione apparente di distruggerla, se non per quella audiocassetta da training autogeno d’altri tempi che si ostina a sentire. Sono loro più che i camei degli stralunati abitanti, con digressioni linguistiche, a sopperire a qualche inevitabile difficoltà di una giovane regista (sotto i quaranta in Italia si è giovani) che ritrova Fred Bongusto e i suoi spaghetti a Detroit forse ormai scotti per molti spettatori. Alla fine però ci si affeziona a quei due personaggi in qualche modo sconfitti dalla vita che forse ormai non cercano più nulla, se non un filo di umanità che il film offre generoso.