Se si volge lo sguardo all’opera complessiva di Melania Mazzucco L’architettrice, pubblicato da Einaudi (pp. 568, euro 22), è romanzo che giunge dopo un lungo percorso, la cui costante è stato il romanzo storico fin da Il bacio della Medusa, con cui Mazzucco ha esordito nel 1996 – e recensito da subito sulle pagine di questo giornale come molte altre sue opere: ambientato agli inizi del Novecento nella marca di frontiera delle vallate subalpine che si affacciano sul versante francese delle Alpi, già allora le sue eroine sono autoironiche e irriverenti, anche nei confronti della scrittura femminile, che si nota nel corso del romanzo essere sovente confidenziale e autobiografica. Nulla di più lontano da tutto ciò del romanzo storico, sposato forse proprio per la sua veste austera.

E romanzo storico nel senso più documentale della parola, perché costante è il riferimento a carte e documenti in tutti i romanzi di Mazzucco, anche quando non vi è narrazione con la prima persona della voce autoriale, ma in forma trasposta come nel caso de La camera di Baltus (1998), in cui le faglie del tempo sono indagate dal personaggio dello storico dell’arte Arsenio Ventura, ondeggiando tra il passato e il presente di affreschi intorno cui si compone un vertiginoso caleidoscopio di donne e uomini. Fino ad arrivare al meraviglioso volume dedicato a Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana (2009), zeppo di carte d’archivio e di analisi di documenti della famiglia della figlia di Jacopo Marietta, protagonista del romanzo La lunga attesa dell’angelo (2008), che lo precede in forma di narrazione ma che all’archivio e ai documenti si abbevera in profondità.

MALGRADO il romanzo storico sembri evocare elementi di staticità almeno per quanto pertiene al genere narrativo e al suo dispiegarsi tra Otto e Novecento, nulla di statico vi è nella scrittura di Mazzucco, fatta di movimenti doppi, tripli e più verso altre costanti coltivate con continua predilezione, come le marche di frontiera, siano esse le valli transalpine o la Svizzera di Lei così amata (2000), dedicato a Annemarie Schwarzenbach, che pure nella sua vita tragica riteneva una fortuna essere nata donna e che è andata per tutte le strade del mondo straniera, vagabonda, pellegrina errante – citazione implicita nel testo di Marguerite Yourcenar; oppure la terra incognita costituita dall’emigrazione italo americana di Vita (2003); o ancora le guerre, come quella descritta in Limbo (2012), ambientato tra Ladispoli e l’Iraq, ma l’attenzione alla guerra come orizzonte della storia è presente in molte delle sue opere, che sia la scesa in Italia dei lanzichenecchi nel 1498 con Carlo VIII, la guerra nella ex-Iugoslavia, la seconda guerra mondiale combattuta a Minturno, o come ne L’architettrice la guerra a difesa della risorgimentale rivoluzione romana.

ALTRA COSTANTE su cui Mazzucco è tornata a più riprese in modi diversi è Roma: Un giorno perfetto (2005) descrive in modo mirabile la giornata di una donna in fuga dal marito violento tra la periferia nord delle case popolari, piazza Vittorio, il centro storico visto dai finestrini degli autobus che attraversano la città in un tempo infinito di percorrenza e che costituiscono l’unico momento di spostamento in una città statica, imbalsamata in differenze di classe che solo gli anni Settanta del Novecento hanno provato a cambiare radicalmente a partire dalla vita stessa delle periferie.

Costante condivisa con le altre scrittrici di romanzi storici della contemporaneità è il protagonismo femminile anche funambolico, in bilico tra radicamento, invenzione di sé e ricerca costante del posto in cui sentirsi a casa: personagge che hanno tratti originali e nuovi ma al tempo stesso profondamente in relazione alla tradizione, sempre femminile, che ha attraversato il Novecento italiano. Perché Mazzucco e le altre qualche domanda sul destino delle donne che scelgono a protagoniste delle loro narrazioni – parafrasando Mazzucco stessa – se le sono poste.

E anche del mondo in cui si vive, dei luoghi, delle città e della loro architettura fatta di storia e di memoria, di progetti che nel corso della vita diventano grandi e travolgenti, come quello dell’architettrice Plautilla Bricci, protagonista e voce narrante del romanzo omonimo che ne narra la lunghissima vita dall’infanzia all’età avanzata durante tutto il Seicento e che progetta insieme al suo amore una villa in cui mai abiterà: una villa barocca in forma di nave sul Gianicolo, di vascello per correre con la mente avanti, prefigurando un futuro quotidiano di gioia e serenità tra i viali alberati e profumati di fiori che non avrà mai luogo. E che sarà invece teatro della battaglia campale per la rivoluzione romana del 1849, rivoluzione come molte altre stroncata dalla guerra e nel sangue e che sancirà, ancora una volta, l’essere Roma una città di soglia, incapace di decidere da sé il proprio volto e la propria sorte.

L’OPERA PRIMA di Mazzucco, Il bacio della Medusa, si apre su una foto di un matrimonio che comunica un sentimento di verginità assoluta: «è una verginità collettiva e suprema che investe tutti, la verginità del futuro», osserva la voce narrante del romanzo, a noi contemporanea perché osserva la foto da una distanza quasi di un secolo, siderale per molti aspetti anche se il futuro di quella foto è ormai presente e lo specchio del tempo è ormai il nostro.
Così come nostro è il tempo della politica delle città, di Roma come di altre, ed è tempo di nascita quello che le scrittrici di romanzi storici prospettano: Mazzucco come Cutrufelli, Maraini, Banti, Bellonci e molte altre hanno lavorato a che la storia metta al mondo altro da quanto fino a qui perpetrato: la guerra in tutte le sue molteplici ricorrenze, l’accumulazione di capitale in tutte le sue forme, dall’industria delle armi a quella immobiliare, a Roma come altrove mortifera e letale per le vite di donne e uomini tutti perché il suo unico scopo è il profitto.

La sconosciuta filologia della vita quotidiana, così la definisce Mazzucco, nei suoi romanzi diviene una costruzione, un’avventura, un’ipotesi di mondo che si vorrebbe diverso da quello che abitiamo in modo così improvvido e al quale il romanzo storico fa da sfondo. Anche la peste, che nel romanzo L’architettrice è ricordata e riattraversata in forma inconsapevolmente anticipatoria di quanto stiamo vivendo: il confinamento, il divieto di riunioni e assembramenti, la fuga fuori città della popolazione abbiente, le differenze di censo – sarebbe più giusto definirle di classe senonché nel Seicento Marx era ancora di là da venire – che si accentuano e divengono incolmabili. E al tempo stesso l’occasione di una stranita libertà per l’architettrice di esercitare la propria passione, quella del costruire edifici, opere dall’architettura composita e complessa, apporto al mondo di bellezza e armonia.
E sebbene sembri utopia, di un cambiamento profondo quale quello di una donna che progetta insieme a un uomo – donne e uomini insieme – un’arca che traghetti la città e l’umanità in salvo.

DIVERSO QUINDI il romanzo storico delle scrittrici dalla pulsione negromantica alle voci fantasma della controstoria di cui ha scritto Domenichelli, ripreso da Giuliana Benvenuti in un bel volume dedicato al romanzo neostorico italiano: quella sorta di discesa agli inferi per far parlare le voci di chi non c’è più assume nelle opere delle scrittrici l’aspetto della venuta al mondo delle personagge, che siano esse la Lucrezia Borgia di Bellonci, Artemisia di Anna Banti, passando attraverso Marianna Ucria di Dacia Maraini e l’Olympe de Gouges di Maria Rosa Cutrufelli, per arrivare infine alla Plautilla di Mazzucco, una vera e propria costellazione di donne nate alla storia per dare diversa architettura al mondo. Che si tratti della città di Roma come di altre non è importante, se non pensando alla necessità di diverse architetture, diversi assetti urbani e del territorio tutto che queste opere, ognuna a modo proprio, si propone di edificare per la città e il mondo in cui abitiamo.