«Scrivere non è mai stato, per me, un lavorare». Così, anno 1983, Sciascia chiudeva la «quarta» della prima edizione di Cruciverba. In copertina una xilografia di Félix Vallotton, La paresse, una donna nuda, prona su cuscini, nel molle ozio di giocare con un gatto. Che lo scrittore di Racalmuto abbia messo uno zampino nell’individuare quella Pigrizia ci sembra lecito sospettare, quale elegante, tacito, rinforzo iconografico della distinzione tra scrittura e lavoro. Sciascia, poi, era uno che «i libri li pensava vestiti», giusta l’osservazione di Salvatore Nigro che nel 2003 aveva curato un bel libro a testimonianza dell’appassionato impegno editoriale di Sciascia presso Sellerio: ideazione di collane, risvolti di copertina, pareri, consigli e revisioni, schede per i venditori, colophon per le strenne, modelli di lettere contrattuali, correzione di frontespizi (anche la Torre di guardia di Savinio). A ciò si aggiungano le intraprese antologiche curate in prima persona, come la memorabile La noia e l’offesa, non solo collezione, ma anche affondo sul fascismo e gli scrittori italiani. Ora quel libro prezioso, Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri (a cura di Salvatore Silvano Nigro e con una testimonianza di Maurizio Barbato, Sellerio, pp. 334, € 16,00) è riapparso, corredato da nuovi documenti, per il trentennale della morte dello scrittore e il cinquantesimo della casa editrice. Da questo libro emergono la «perfetta diarchia», l’«armonico gioco delle parti», affettuoso e discreto, tra Elvira e Leonardo, e il lavoro compiuto da Sciascia «sempre con la convinzione – scrive Nigro – che la scelta di un libro da pubblicare è un atto di critica».
Pressoché coevi sono i Saggi letterari, storici e civili, secondo tomo del volume Inquisizioni – Memorie – Saggi, per le cure di Paolo Squillacioti (Adelphi «La nave Argo», pp. 1484, € 75,00), felice compimento dell’impegnativo progetto che ripropone le Opere in edizione di pregio e filologicamente accertata.
Queste uscite complementari consentono di rileggere Sciascia in due diverse espressioni di stile: i giudizi luminosi e sintetici delle bandelle e le trattazioni di respiro propriamente saggistico – il tomo adelphiano comprendendo quasi cinquant’anni di attività, dal 1953 di Pirandello e il pirandellismo, al 1989 di A futura memoria (se la memoria ha un futuro), la «raccolta d’autore postuma», così Squillacioti, degli scritti d’intervento civile e politico incentrati sui «professionisti dell’antimafia», nata sulla proposta di Mario Andreose ed Elisabetta Sgarbi per Bompiani.
Con gli eccellenti apparati storico-filologici allestiti da Squillacioti, il tomo comprende anche, tra gli estremi citati, Pirandello e la Sicilia (1961), La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (’70), Cruciverba (’83), Per un ritratto dello scrittore da giovane (’85), Ore di Spagna (’88), Alfabeto pirandelliano (’86), Fatti diversi di storia letteraria e civile (’89).
È forse nella scrittura dei saggi letterari, e in particolare di quelli d’argomento siciliano, che la prosa di Sciascia – misurata, tesa, cólta e in talune prove narrative del giusto scarnita – si scalda e si accosta con libertà di toni all’emozione intellettuale. Ciò avviene, fermo il rigore di verifiche testuali e indagini filologiche e storico-letterarie, soprattutto nei numerosi scritti pirandelliani, ininterrotto dialogo artistico, esistenziale e filiale, e in quelli verghiani.
In Sciascia l’esercizio critico è pienamente, gloriosamente scrittura. Non altrimenti si potrebbe intendere la fine costruzione di Verga e la memoria, quel procedere interpretativo e insieme narrativo, da una novella «delle più belle e meno conosciute», La chiave d’oro, all’ammiccante riuso fattone da Capuana; non altrimenti l’importanza della memoria che è lì rivelata dalla fugace apparizione di un bambino impressionato per tutta la vita dallo «spettacolo che aveva avuto sotto gli occhi così piccolo». Quella presenza non è «gratuita o incidentale», è piuttosto «catalizzatrice», è un autentico indizio, in risonanza con altre spie che svelano «la presenza della memoria» nella narrativa di Verga mettendone a fuoco la funzione: «una fiamma, una donna, un bambino».
Quando coglie dati che cronologicamente non possono convivere, come la contemporanea presenza ad Aci-Trezza della ferrovia e del giovane Malavoglia destinato a morire nella battaglia di Lizza, Sciascia applica all’interpretazione letteraria quel metodo di scavo e riflessione che nella narrativa gli ha consentito di elaborare «gialli dal vero» avviando deduzioni nuove, nuove interpretazioni di atti messi a verbale da tempo.
Anche dei testi critici, non solo di quelli letterari, ausculta gli echi più fini, pronto ad afferrare, per esempio, la «sottile insinuazione» che potrebbe aver fatto Giacomo Debenedetti collocando il saggio intitolato «ai presagi del Verga subito dopo i due capitoli su Proust». Immessa nel nitore speculativo di Sciascia, e implicata nel suo coinvolgimento letterario, quell’insinuazione diventa un indizio, tanto da concedere una «piccola allucinazione»: che la silhouette femminile di Fantasticheria, quasi «disegnata da Paul Helleu o da Edgar Chahine, e insomma da Elstir, stia per entrare nel labirinto del tempo perduto e ritrovato di Marcel Proust».
Ma il medesimo calore emotivo e la medesima acutezza promanano dal saggio per Guttuso che prende immediato aire dal Diderot dei Pensieri bizzarri sul disegno per poi descrivere come, al pittore siciliano, le cose esplodano sulla tela o sul foglio, lì fissate «da una divorante impazienza», vere e inscritte in un meccanismo che è «il sistema della sofferenza. Il sistema della passione».
Fusione tra giudizio critico, biografia e accento narrativo si apprezza nel saggio Il volto sulla maschera che dopo considerazioni sul divenire e l’essere, sul «tempo sottratto al tempo e in attesa del tempo», sulla vita come «archivio di ombre», rievoca il Mattia Pascal e il Casanova interpretati da Ivan Mosjoukine nei rispettivi film di L’Herbier e di Volkoff visti da ragazzo, ancor prima di leggere romanzo e memorie. L’incontro si trasforma in predestinazione, il cinema torna «lanterna magica», ma il «grande commediante», dopo quelle prove, diviene incapace di «dare il suo volto ad altre maschere». A non dire della Postilla che ricostruisce, in volata, la pirandelliana «dualità tra vita e forma» da cui era stato tormentato Romain Gary, di Mosjoukine figlio naturale.
I saggi accolgono piani diversi: il ricordo d’infanzia in apparenza esornativo – i carretti scesi dalle neviere per vendere neve «a refrigerio delle mense estive» –, ma in realtà funzionale a mostrare che quanto chiamano progresso si mostra anche attraverso storie di ghiaccio e pellicole cinematografiche; lo squarcio descrittivo che prende alla gola; le digressioni che accendono la curiosità del lettore; il genuino gusto per l’erudizione. E lo sdegno civile che biasima tanto un titolo di giornale chiassoso e falso, A Majorana piacque Hitler, quanto colpe e discolpe inveterate: «c’è sempre un passato regime, un passato governo cui attribuire, in Italia, omissioni e nefandezze».
A fornirgli materia (pretesto) d’indagine, accanto alla letteratura, sono anche fatti di cronaca del passato. È il caso della terza e più recente uscita di quest’ottima congiuntura editoriale, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, pure a cura di Squillacioti (Adelphi, pp. 69, € 7,00). Primo titolo destinato alle Edizioni Esse, originaria sigla di Sellerio, recava nel 1971 un sontuoso saggio di Giovanni Macchia dedicato allo scrittore francese che si sentiva «un predestinato» in grado di produrre con la penna «rayons de lumière». Il libro aveva, in copertina, un occhio d’insetto, incisione di Fabrizio Clerici. L’inquietudine si propagava alle pagine, avvincenti malgrado il tono distaccato della prosa giudiziaria. Percorrendo gli atti vergati dalle autorità fasciste nel 1933, l’occhio di Sciascia si appunta su particolari «curiosi», «incongruenze e contraddizioni» e fa parlare verbali che ad altri apparirebbero inerti, senza mai ignorare, però, che i fatti della vita, «quando li si scrive», diventano «più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci».