È una sfida enorme, un passaggio storico e complicato quello che si è aperto ufficialmente ieri allo Sheraton hotel di Doha, in Qatar, dove i Talebani e i rappresentanti della Repubblica islamica d’Afghanistan si sono seduti al tavolo negoziale. Per la prima volta dopo quasi vent’anni di guerra e decine e decine di migliaia di morti, perlopiù civili.

A fare gli onori di casa dopo la recitazione del Corano è stato lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, ministro degli Esteri del Qatar. Poi è stata la volta degli «antagonisti»: Abdullah Abdullah, già primo ministro afghano e oggi a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, rappresentante di quella Repubblica nata dopo il rovesciamento militare nel 2001 dell’Emirato islamico, il governo dei Talebani, è andato dritto al punto: l’occasione è storica, il negoziato indispensabile, partiamo da ciò che è più necessario, un cessate il fuoco umanitario. Mullah Abdul Ghani Baradar, uomo della vecchia guardia talebana, già vicino al fondatore e leader supremo mullah Omar, a lungo detenuto nelle prigioni pachistane e oggi numero due del movimento, si è augurato la possibilità per tutti gli afghani – «senza discriminazione» – di una «vita tranquilla, in pace, prospera».

E un «Afghanistan indipendente, sovrano, unito, libero». Con un governo basato su un «vero sistema islamico», formula vuota e generica da riempire con contenuti istituzionali concreti, sui quali molto si litigherà nelle prossime settimane e mesi.

Il negoziato sarà duro, irto di ostacoli. Lo ha riconosciuto mullah Baradar e lo ha ripetuto il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. La Casa Bianca ha fretta di capitalizzare un eventuale accordo di pace alle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Ma i tempi sono stretti. Troppo per trovare un compromesso equilibrato e duraturo, tra attori che partono da idee così diverse sulla società, sulla politica, e che vengono tirati per la giacca da attori regionali e internazionali.

Gli Usa – ha dichiarato Pompeo – «vorrebbero un Afghanistan sovrano, unito e democratico, in pace al suo interno e con i vicini». «Gli Stati Uniti non intendono imporre il proprio sistema ad altri», ha aggiunto, ma sia chiaro: danari e assistenza future dipenderanno dalle vostre scelte. Un messaggio esplicito ai Talebani: non tirate troppo la corda sulla questione del sistema islamico, altrimenti addio danari. Continua però la riduzione delle truppe americane sul terreno, che per fine ottobre dovrebbero scendere a 4.000, sulla base dell’accordo tra Usa e Talebani firmato a Doha lo scorso febbraio.

Il negoziato «intrafghano» iniziato ieri a Doha è figlio dell’accordo bilaterale di febbraio: fine dell’occupazione, via le truppe dall’Afghanistan in cambio dell’impegno dei Talebani a negoziare con la controparte afghana e a rompere con al-Qaeda e il terrorismo internazionale. In ritardo rispetto all’agenda iniziale, il negoziato è comunque iniziato. Mentre la rottura con al-Qaeda, nei termini formali ed espliciti voluti dagli americani, non c’è stata. Sarebbe servita agli Usa per nascondere una delle maggiori responsabilità della loro politica estera: aver condotto una guerra nel posto sbagliato, contro i Talebani che nulla avevano a che fare con gli attentati dell’11 settembre, il cui legame con al-Qaeda è sempre stato problematico.

Oggi che i Talebani sono al tavolo negoziale, che il numero due del movimento si fa fotografare in posa con Mike Pompeo, che gli studenti coranici vengono trattati come diplomatici e non come terroristi, la scelta del 2001 del presidente guerrafondaio George W. Bush appare in tutta la sua drammaticità: la guerra afghana non andava condotta.

Decine e decine di migliaia di morti andavano risparmiati. Il negoziato, oggi, certifica la sconfitta degli Stati Uniti e mette per la prima volta gli opposti fronti afghani l’uno di fronte all’altro. Trovare un compromesso sarà difficile.

Ancora più difficile sapere se andrà a beneficio della popolazione. Lo dimostra una scena avvenuta all’hotel Sheraton di Doha, durante una pausa dei colloqui. Nader Nadery, portavoce della delegazione istituzionale afghana, volto noto della società civile con importanti incarichi governativi, è stato fermato da un giornalista talebano.

«Sei qui in rappresentanza di Ghani, un presidente che ha raccolto meno di un milione di voti» su 35 milioni di abitanti, lo ha accusato il giornalista. Nadery gli ha risposto per le rime: il leader dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, non ha ricevuto neanche un voto, di quale legittimità parli. Sta qui il nodo: a cercare di trovare un accordo politico, a dover fare la pace sono due attori – governo e Talebani – che agli occhi degli afghani non hanno legittimità. Che siano in grado di garantire loro dignità per il futuro e giustizia per i crimini passati è la vera incognita del negoziato iniziato a Doha.