Di fronte alla scelta drammatica fra diritto e giustizia, fu detto al «processo Eternit» in Corte di Cassazione, il giudice deve scegliere il diritto. Doloroso problema: che diritto e giustizia possano divergere, stare in opposizione. È ciò che mostrano sentenze formalmente ineccepibili, ma difficili da accettare, come quella sull’Eternit: per l’epidemia generata dalle fabbriche di amianto nessuno ha pagato. Indagini, processi, e il giudizio finale: reato prescritto, nessun risarcimento, delusione e senso di ingiustizia per le vittime. Un esempio, fra i tanti possibili, di un dissidio su cui riflette da sempre il pensiero filosofico-giuridico, come autorevolmente illustra il volume di Massimo Cacciari e Natalino Irti Elogio del diritto (La nave di Teseo, pp. 158, euro 18), costruito intorno alla ripubblicazione di un saggio del grecista tedesco Werner Jaeger, apparso per la prima volta in inglese nel 1947 (e l’anno dopo nella traduzione italiana di Edoardo Ruffini, qui riprodotta).

IL DIRITTO VIVE NEL MONDO dei fatti, la giustizia in quello dei valori: collegarli è difficile, arbitrario, forse impossibile. E probabilmente pericoloso. In una società pluralista, laica e secolarizzata, le diverse idee di giustizia stanno l’una di fronte all’altra come differenti visioni del mondo, e una Giustizia che sia universalmente riconosciuta come sostanza etica, come Verità, non c’è più. Il diritto, quindi, non è figlio della Verità, ma è semplicemente ciò che è posto, ciò che è deciso dall’autorità legittima.

E tuttavia, ammonisce Cacciari, «il Diritto non può non cercare anche di apparire giusto, di volersi giustificare». Il giudice deve interpretare la legge «sulla base di principi che, in quanto tali, la trascendono», allo scopo «di renderla giusta». Oggi, quei principi che sottraggono al potere politico (e giudiziario) la facoltà di decidere in maniera radicalmente ingiusta, violando la dignità dell’essere umano come fu fatto con le leggi razziali, sono scritti nelle Costituzioni.

LA RAZIONALITÀ delle Costituzioni rigide del dopoguerra, però, può ben poco di fronte all’attuale «fabbricazione di leggi in massa», a una produzione di norme che, secondo Irti, «obbedisce all’occasionalismo più sfrenato e convulso». A menare le danze è la tecno-economia che, almeno sino all’apparire della pandemia del Covid-19, ha preteso e ottenuto provvedimenti utili alla propria egemonia: un diritto de-localizzato e inafferrabile, la cui esistenza si avverte solo quando produce tagli al welfare e alle tutele.

Contro i marchingegni tipo i memorandum della troika in Grecia, la ri-localizzazione del diritto può essere una risposta. Ma il rischio è che non sia una strada progressiva: il ritorno a uno schmittiano «Nomos della terra» nazionale lascia fuori dalla (ipotetica) protezione di un nuovo diritto giusto chi al nostro suolo non appartiene, chi lo attraversa, chi sta fuori e chiede di entrare.
Mettersi in ascolto del pensiero antico, come ci propone questo volume, non può che giovare, comunque si affronti la questione.

NELL’ANTICHITÀ GRECA il diritto è connesso a un ordine cosmico, insieme naturale e divino, sino a quando irrompono i sofisti con il loro relativismo, vero e proprio positivismo giuridico ante litteram. Jaeger, fuggito negli Usa dalla Germania nazista, riproponeva due anni dopo la fine del Terzo Reich la necessità che la legge, se vuole essere «vera», debba essere anche «giusta». Esigenza impossibile da soddisfare richiamandosi a inesistenti verità «naturali», ma problema da continuare a porsi nell’incontro fra teoria giuridica e pratiche sociali.