Il libro più importante apparso in Germania negli ultimi anni è un piccolo volume di un centinaio di pagine, composto di 198 frammenti che appartengono alla grande tradizione della scrittura aforistica tedesca, quella che da Lichtenberg, Novalis e Friedrich Schlegel arriva a Benjamin, Adorno e Canetti passando per Nietzsche e Karl Kraus. L’ha scritto Ilija Trojanow, di cui in Italia si conosce il bel romanzo, Il collezionista di mondi, e si intitola Dopo la fuga (traduzione di Umberto Gandini, Edt, pp. 107, euro 12.50).

La ragione della sua importanza è solo in parte legata al tema, che condivide ormai con infiniti altri libri: la condizione dell’esule come eccezione utopica, come punto d’incontro fra il molteplice e il nulla e come specchio di un’identità primordiale che il moderno Occidente si sforza (per ora fortunatamente invano) di rimuovere. La perversa coda cui dà oggi luogo il plurisecolare dominio di una miope idea di confinamento nazionale ha offuscato nella memoria europea il valore paradigmatico che ha avuto per la formazione della coscienza continentale la risposta di Nausicaa alla preghiera di Odisseo naufrago sull’isola dei Feaci (profughi a loro volta dell’originaria Iperea): «Poiché sei giunto alla nostra terra e alla nostra città, / non resterai senz’abiti, né senza il resto / che si deve dare a un supplice, provato dalla sventura» (traduzione di Guido Paduano, Odissea, Einaudi 2010). La rimozione dell’appartenenza a un’umanità composita e mobile restituisce il crisma della necessità anche al messaggio più arcaico.

Una vita su più scene
Nel piccolo libro in cui Trojanow tira le somme di una lunga riflessione sulla sua vita di profugo e di apolide nato in Bulgaria, rifugiato in Germania, cresciuto in Kenya e diventato cittadino dei molti mondi in cui ha avuto in sorte di vivere, non c’è nessuna narrazione principale, solo una pluralità di aneddoti, storie, riflessioni, dialoghi, che si collegano esattamente allo stesso modo in cui si combinano le appartenenze provvisorie nell’esistenza di colui che vive dopo la fuga. Quella del profugo, scrive Trojanow, «è una vita che si dipana su più scene»; in quest’ottica il caleidoscopio aforistico che il libro dispiega è una specie di adesione mimetica alla vita cui presta la voce.

Diviso in due parti composte ognuna di 99 frammenti disposti in ordine ascendente e contrassegnati da numeri romani nella prima e in ordine discendente indicato da numeri arabi nella seconda, il libro descrive anche in questo suo andamento l’ideale moto pendolare fra luoghi di partenza e destinazioni d’arrivo che restano la forma mentis cui l’esule resta per sempre legato (laddove l’andata e il ritorno, come indicano le diverse numerazioni, sono realtà comunque incongruenti).

È comunque sul piano delle scelte formali che il libro si rivela un unicum nella sempre più vasta letteratura della migrazione. Anche la narrativa tedesca contemporanea ha via via dato forma a un’epica della fuga e con Voci del verbo andare di Jenny Herpenbeck ha prodotto il suo lavoro di maggior richiamo. Ma la scelta di ridurre il materiale di una vita a una serie chiusa di aforismi acutissimi, che richiedono una lettura lenta e possibilmente ripetuta, rivela l’ambizione di Trojanow di sfuggire all’isolamento della pura letteratura e di sfidare con il suo libro la retorica del presente. Se gli aneddoti, gli schizzi narrativi o i frammenti dialogici (ognuno dei quali offrirebbe materia per un racconto) restituiscono al lettore l’immagine geniale e residua di ciò che il libro ha scelto di non essere, i versi, gli aforismi e le sentenze sono il difficile commento all’arte di sopravvivere interiormente alla fuga, che è il grande non-tema dell’occidente. Questi aforismi costringono il lettore a fermarsi, lo obbligano a rallentare il ritmo della lettura, a mettere la singola riflessione in risonanza con tutto ciò che la precede e la segue. E se è ancora facile cogliere il significato di un aforisma come: «I fuggiaschi svegliano domande dormienti», è assai più difficile afferrare a prima vista il senso di uno come questo: «Nel peggiore dei casi l’esilio è una raccolta di santi alcolizzati».

Costringendo il suo lettore a penetrarne le stratificazioni e le complessità, il libro diventa l’espressione esemplare del suo oggetto: è l’altro dalle molteplici identità che non si dischiude a un avvicinamento ingenuo. Per quanto il suo stile sia limpido, per quanto le sue riflessioni siano lucide e per quanto le sue parole siano semplici, il libro – proprio come l’esule – sfugge a chi non cerchi di assumere la sua prospettiva. E così facendo affronta i suoi antagonisti reali. Li indica chiamandoli per nome («Tutti quei santi idioti, veggenti ciechi, falsi profeti») e li sfida attraverso la sua difficoltà: la difficile forma breve delle sue frasi si oppone a quella a buon mercato della demagogia, all’arguzia elementare del tweet e all’immediatezza dell’urlo. Proprio come gli esuli a cui dà voce, Trojanow abbandona il suo luogo d’origine, l’autonomia estetica del raccontare, per introdursi clandestinamente, da oppositore, nella sfera di una realtà che lo respinge e che stenta a comprenderlo. Anche il libro, come i suoi esuli, «si adopera per cambiare il linguaggio. Per migliorare quei concetti che non gli si adattano quando gli vengono imposti». E come i suoi esuli si muove continuamente da un luogo all’altro per sfuggire al rischio di rimanere intrappolato nella sua prigione di carta.

Il prototipo del fuggisco
Nei Dialoghi di emigrati tedeschi Goethe fa raccontare a uno dei suoi personaggi la storia di un commerciante incapace di rinunciare a viaggiare e disposto a perdere tutto ciò che ha pur di non sacrificare il suo personale destino di movimento. Trojanow sa che nella storia del suo commerciante Goethe ha descritto il prototipo ideale del fuggiasco e a questa immagine dedica uno dei suoi aforismi-guida: «Di per sé il movimento non è un bene né un male. È uno stato della materia. Per il fuggiasco non è facile star fermo. Neppure se lo trattengono». La fuga stessa è uno stato della materia, incoercibile come tutti i grandi moti naturali. Il movimento verso un’altra condizione è ciò che l’esule effettua per tutta la vita e che il libro interseca e imita: alla ricerca dei nuovi concetti che rendano possibile a chi si sforzi di comprenderlo di staccarsi dalla stasi del pensiero abitudinario e di ogni scontata comprensibiltà.