Dallo scorso Festival di Cannes, dove è stato presentato in concorso (molto applaudito) l’elemento «mediatico» di Due giorni, una notte, il nuovo film di Jean-Pierre e Luc Dardenne (in sala il 13) è stato la presenza di Marion Cotillard, la star che arriva nell’universo cinematografico dei due fratelli belgi fin qui lontano dagli Attori. Non che Olivier Gourmet, il loro attore feticcio, o il molto bravo Fabrizio Rongione (qui nel ruolo del marito di Cotillard) siano da meno, ma la loro presenza è parte del paesaggio cinematorafico dei registi. Cotillard invece è una celebrità mondiale, lady Dior patinata e orgoglio francese che conquista l’America – Nolan, James Gray, Woody Allen, Ridley Scott ..

 

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I Dardenne però la volevano da tempo, era anche un po’ una sfida: trasformarla nell’operaia Sandra, canotte del Monoprix, una depressione sempre in agguato che l’ha resa l’anello debole della piccola azienda in cui lavora. E così è lei che decidono di tagliare per pagare il premio di produzione agli altri operai, mille euro che tutti vogliono, la crisi non fa sconti a nessuno. Sandra dovrà convicerli a rinunciarvi per permettere a lei di restare, la sua è una corsa contro il tempo, uno solo fine settimana, ma soprattutto contro quei soldi che fanno comodo a tutti, ci sono i figli, la mogli o il marito in disoccupazione, la casa da sistemare, i mobili nuovi da comprare, le minacce del caporeparto.

 

 

Cotillard non ha trucco, i capelli sono tirati con l’elastico le occhiaie profonde. É bastato il lavoro di «destrutturazione» fatto prima del film a spogliarla dell’aura di Marion Cotillard? E quanto ha cambiato la sua presenza il loro modo di girare? La domanda la poniamo ai Dardenne all’incontro nell’afosa mattina romana. Loro sono appena atterrati da Los Angeles, Due giorni, una notte rappresenterà il Belgio agli Oscar. Noi siamo colpevolmente in ritardo, e la risposta rimane fluttuante nell’aria.
Se ci sono riusciti, del resto, non sta a loro dirl, ma sì qualcosa è cambiato, nei ritmi, nella narrazione, in quella certa programmaticità che l’attrice acuisce. Il fatto è che non le credi mai davvero, non credi alle sue lacrime, alla sua agitazione, nemmeno troppo alle sue magliettine e non perché è Cotillard ma perché non diventa mai Sandra. La interpreta, sì, ma questa è un’altra cosa.
Forse da parte dei Dardenne c’era la voglia di sperimentare qualcosa di diverso, a loro stesso dire Due giorni, una notte è il film meno cupo che hanno fatto: alla follia solitaria a cui va incontro la protagonista del precedente Lorna, stritolata dai meccanismi del capitale, qui l’operaia Sandra accetta il suo «destino» con la serenità di una nuova forza. «Volevamo dare un segnale di speranza, la realtà in cui viviamo è già così disperante» dicono i Dardenne dandosi la parola a turno, a volte risponde uno, a volte un altro, spesso si completano le risposte a vicenda.

In che senso?

Nel film c’è una frase per noi molto importante che viene ripetuta dai colleghi Sandra: ’Mettiti al mio posto’. Non abbiamo mai pensato di allestire un tribunale dove sedici persone si accaniscono contro una poveretta per farla fuori, né tantomeno volevamo giudicare le scelte dei diversi personaggi. Ognuno di loro resta un essere umano, con le sue ragioni e i suoi problemi, difatti neppure lei li giudica anche quando riceve un rifiuto. La nostra idea, o meglio il nostro desiderio è che he pure lo spettatore si metta al posto dei lavoratori chiedendosi cosa farebbe in una situazione simile. Ci piace pensare che questo film possa produrre una diversa consapevolezza del presente e dei suoi conflitti in chi lo guarda.

Nel finale Sandra sembra acquistare una sicurezza inaspettata che arriva attraverso la scoperta della solidarietà di classe. É questa per voi la dimensione da riconquistare?

 

Ci interessava capire se la solidarietà esiste, se è ancora possibile e come. Ma rimanendo dentro alla storia che raccontiamo, senza generalizzare. Siamo partiti da un fatto di cronaca accaduto in Francia, anche se in Belgio la situazione non è molto diversa. Le piccole imprese non hanno l’obbligo della rappresentanza sindacale, e possono licenziare gli operai molto facilmente secondo le necessità. In occasione dell’uscita in sala del nostro film, la televisione belga ha mandato in onda un’inchiesta su tre società nelle quali si era presentata una situazione analoga a quella che raccontiamo. In due di queste gli operai avevano accettato di abbassare i loro salari per salvare il posto degli altri, in un’altra invece l’operaio era stato licenziato. Ci sono poi molte altre cose, per esempio le donne o le persone meno giovani sono quelli più a rischio. O anche chi non è belga di origine. A noi però più di compilare una casistica interessava costruire una sorta di percorso alla fine del quale la nostra protagonista si ritrova allo stesso punto, può decidere se prendere lei il posto di qualcun altro oppure no.

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La realtà in cui si muove Sandra somiglia a quella di tante altre nell’Europa di oggi. Anzi è l’Europa che sta progressivamente restringendo tutti i diritti dei suoi cittadini. Voi cosa ne pensate?

Siamo a favore dell’Europa, ma quella che c’è ora non è sociale. Esisterà quando si pagheranno delle tasse europee e non nazionali o quando in Spagna o in Italia si scenderà in piazza per protestare contro il licenziamento di un lavoratore in Lituania. L’Europa che abbiamo adesso non è sociale perché è controllata da un mercato liberista, ma la colpa non è dell’Europa come si tende a credere, quasi fosse una entità assoluta; sono le economie decise dai paesi a bloccarne lo sviluppo sociale, ma se si continua così presto saranno smantellate ovunque la sanità o l’istruzione. E anche il cinema, e più in generale la cultura non devono diventare soltano appalto degli interessi privati.Il cinema non può essere una mercanzia come le altre.

La scelta di Marion Cotillard rappresenta un cambiamento rispetto ai vostri film, per la prima volta lavorate con un’attrice molto connotata.

Abbiamo conosciuto Marion Cotillard lavorando come coproduttori a Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard, e da subito abbiamo pensato che ci sarebbe piaciuto coinvolgerla in un nostro film. Con lei abbiamo lavorato come sempre coi nostri attori, provando a lungo a teatro prima di girare per creare u clima di fiducia e trovare i ritmo giusti. Abbiamo fatto con lei un lavoro di destrutturazione, e Marion è stata molto disponibile. L’obiettivo era modificare le abitudini della recitazione, spogliandola di quei vizi tipici di Hollywood ma non solo. Per noi non esiste la spontaneità, tutto è frutto di uno studio, cerchiamo la fisicità, vogliamo che siano presenti i corpi dei personaggi perché filmare è movimento, e questo è fondamentale.