Ogni giorno che passa 35 mila persone al mondo sono costrette a abbandonare la propria casa. In media 24 uomini, donne e bambini al minuto. Lo fanno per sfuggire alle violenze e alle persecuzioni di cui sono vittime, perché i loro diritti vengono violati, ma anche perché coinvolte in conflitti che si protraggono senza fine da decenni. Oppure perché il villaggio in cui vivevano semplicemente non esiste più, travolto da un’alluvione o distrutto da un terremoto. Fuggono perché non hanno alternative e perché per loro è diventato ormai impossibile restare nella terra in cui sono nati.

Una diaspora silenziosa e senza confini che nel 2015 ha riguardato 65,3 milioni di persone in tutto il mondo, 5,8 milioni in più rispetto all’anno precedente. Per l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si tratta di numeri che «hanno toccato livelli mai raggiunti prima e comportano sofferenze umane immense». In pratica 1 persona ogni 113 è un richiedente asilo, uno sfollato o un rifugiato. E più della metà del totale, il 51%, è rappresentato da bambini.

Di queste migrazioni forzate si occuperà il 19 settembre a New York un’assemblea straordinaria dell’Onu voluta da Ban Ki-Moon e con cui il segretario generale delle Nazioni unite spera di coinvolgere e responsabilizzare con impegni concreti i capi di stato e di governo al dramma dei profughi. «Un’occasione storica per concordare un patto globale e un impegno a un’azione collettiva», ha spiegato nelle scorse settimane. Il progetto, ambizioso, è di dare vita entro il 2018 ad un Global Compact che porti ogni anno i 193 stati membri a distribuirsi il 10% dei profughi riuscendo così a gestire finalmente il fenomeno senza lasciare più soli, come accade oggi, i paesi di primo approdo. Progetto lodevole nelle intenzioni, che sembra però destinato a rimanere sulla carta visto che nelle prime bozze di documento finale girate finora nel palazzo di Vetro non si andrebbe oltre una generica e scontata solidarietà, lasciando nella vaghezza totale – nonostante il documento non sia impegnativo per gli Stati – un’eventuale distribuzione dei profughi.

In Europa siamo abituati a considerare il dramma di chi è costretto ad abbandonare il proprio Paese come una delle conseguenze del conflitto siriano, giunto ormai al quinto anno, oppure delle dittature e delle precarie condizioni di vita esistenti in molti Stati africani. Dimenticando spesso che il problema riguarda l’intera pianeta. Dei 65,3 milioni di persone registrate dall’Unhcr nel 2015, 3,2 si trovavano in un paese industrializzato in attesa di una risposta alla loro domanda di asilo, 21,3 milioni erano rifugiati e 40,8 milioni erano sfollati all’interno del proprio paese. «Il numero più alto registrato, in aumento di 2,6 milioni rispetto al 2014», spiega l’Unhcr.
Un incremento che in molte aree del pianeta ha avuto inizio dalla metà degli anni Novanta, ma che ha fatto registrare una vera e propria impennata negli ultimi cinque anni. Tre, secondo l’Alto commissariato Onu – le cause principali di queste fughe di massa: il fatto che molti conflitti, come ad esempio in Somalia e in Afghanistan, durano ormai da decenni; la nascita di nuove crisi o il riacutizzarsi delle vecchie (Sud Sudan, Yemen, Burundi, Ucraina, Repubblica Centrafricana, tra le altre) e, infine, una diminuita capacità di intervenire, dalla fine della Guerra Fredda, nel trovare soluzioni per rifugiati e sfollati. «Fino a dieci anni fa, alla fine del 2005 – prosegue l’Alto commissariato Onu per i rifugiati – l’Unhcr registrava circa sei persone costrette a fuggire dalla propria casa ogni minuto. Oggi questo numero è salito a 24 ogni minuto, quasi il doppio della frequenza del respiro di una persona». Siria, Afghanistan e Somalia risultano essere i primi tre Paesi «produttori» di profughi (rispettivamente 4,9 milioni, 2,7 milioni e 1,1 milioni di rifugiati) mentre la Colombia con il più altro numero di sfollati interni, 6,9 milioni, seguito da Siria (6,6) e Iraq (4,4).

Da quando la crisi dei migranti ha investito il Cecchio Continente il segretario generale dell’Onu ha più volte chiesto all’Europa di fare di più per salvare le vite di chi fugge dalle guerre. Fino a convocare un’assemblea straordinaria sollecitando una soluzione a livello globale. «Un’occasione storica», l’ha definita, chiedendo a tutti gli Stati di farsi carico di una quota, il 10% ogni anno, dei milioni di disperati costretti senza più un luogo sicuro in cui vivere.
La soluzione, però, non sembra essere a portata di mano. Nel documento che si sta mettendo a punto per le conclusioni del vertice di lunedì, abbonderebbe infatti la solidarietà ma mancherebbe ogni impegno, per quanto formale possa essere. Gli Stati, e a quanto pare Russia e Cina in particolare, si sarebbero infatti guardati bene dal fare promesse e questo anche se martedì, appena ventiquattro ore dopo la chiusura dell’assemblea alle Nazioni unite, sarà lo stesso presidente Obama a lanciare un appello ai potenti del mondo chiedendo di mettere fine alle sofferenze dei profughi. Niente da fare.

La possibilità di un nulla di fatto, se non proprio di un insuccesso, rischia così di macchiare la fine del mandato di Ban Ki-Moon. «Invece di condividere le responsabilità, i leader mondiali le hanno evitate lasciando milioni di rifugiati in condizioni disperate, sull’orlo di un precipizio», ha denunciato due giorni fa Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, prevedendo il fallimento del vertice.