Rams. Storia di due fratelli e otto pecore è il film con il quale, quest’anno a Cannes, il regista islandese Grímur Hákonarson ha vinto Un Certain Regard. Dal titolo originale molto secco, Hrútar (arieti) si è giunti, per la versione che esce questa settimana nelle sale italiane, a una sorta di sinossi breve. Gli arieti o montoni (Rams), due fratelli, Gummi e Kiddi e, appunto, otto pecore, quelle che uno dei due salva clandestinamente da morte certa, dopo che un ovino ha manifestato i sintomi della scrapie, virus letale che colpisce in modo irreversibile il suo sistema nervoso.

Prima di scoprire il destino tragico delle pecore, animali simbolo del cinema contemporaneo senza alcuna distinzione di genere (qui tra l’altro con un ruolo da protagoniste e non con un semplice cameo), veniamo a conoscenza di un elemento portante del film, ossia che i due fratelli non si parlano da quaranta anni. Si somigliano, conducono la stessa vita, dividono un terreno dove sia l’uno che l’altro allevano montoni e pecore da ingravidare, partecipano a competizioni che decretano il miglior ariete della zona. Proprio in una di queste gare, Gummi arriva secondo dietro il fratello. Amareggiato per la sconfitta, va a verificare le fattezze del montone vincitore e in quell’occasione scopre che l’ovino ha contratto il virus letale.

A questo punto, se si trattasse di un film mainstream americano, comparirebbe un veterinario divorziato, interpretato da Dustin Hoffman, con un figlio tossicodipendente che rompe l’anima al genitore perché proprio quel giorno vuole aprire un ristorante e riconquistare un po’ di autostima. Oppure, potrebbe irrompere una scienziata con le fattezze di Julia Roberts, disposta a rinunciare al matrimonio di sua figlia pur di trovare una cura .

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Invece, siamo in Islanda, un paesaggio mozzafiato, abitato da persone di poche parole e pretese che si vedono privati del loro unico bene. Un patrimonio che peraltro anche in salute non li mette al riparo dai debiti. Sia nel film, che nella realtà, al manifestarsi di questa malattia tutto deve essere distrutto, non solo l’intero gregge sano o contagiato che sia, ma anche ciò che quegli animali stavano mangiando, toccando e persino sfiorando. E per due anni niente più allevamenti in attesa che del virus non resti alcuna traccia.

Hákonarson, che ha vinto altri premi internazionali con i suoi lavori precedenti, non eccede con i toni tragici, se non per l’uso ridondante della musica, e di contro non fa particolare sfoggio d’ironia, a parte quando Gummi usa un trattore per trasportare suo fratello, completamente sbronzo e con un principio di congelamento, per poi scaricarlo davanti all’ospedale, neanche fosse una balla di fieno.

In questo lento procedere, ci si potrebbe far prendere la mano e raccontare senza accorgersene l’intero film che, comunque, ha un epilogo a suo modo originale. Non che una storia debba contenere per forza colpi di scena a ripetizione. Ma in questo dissidio tra fratelli manca quella dose di cattiveria richiesta da una vicenda nella quale sostanzialmente due uomini vivono in conflitto non solo tra di loro ma con il resto della comunità. Di fatto Gummi e Kiddi non saprebbero fare altro nella vita se non allevare montoni che probabilmente neanche amano. La strage di ovini potenzialmente sani è vissuta come un attentato al loro modo di esistere, non certo degli animali che avrebbero il diritto di poter esistere altrove senza l’obbligo di procreare. E dunque perché tanto romanticismo e belle immagini?