Nel secondo novecento ci eravamo abituati ad associare all’invisibilità sociale un insieme di fenomeni che rimandavano a condizioni di marginalità ed esclusione, a contesti connotati da arretratezza o ritardo rispetto a un ampio processo di sviluppo tutto sommato inclusivo.

OGGI L’INVISIBILITÀ riguarda invece il corpo centrale della società, come una nebbia che si estende dai margini della città per arrivare al centro, a sua volta diventato convenientemente invisibile; sollevato, potremmo dire, al di sopra dell’indistinto sociale, illuminato e talvolta accecato come una falena dalla luminosità delle promesse del progresso tecnologico. Questa immagine, che può apparire apocalittica, ci dice anche qualcos’altro. L’invisibilità sta tanto nella dimensione orizzontale di chi è immerso nella nebbia e non riesce a distinguere e riconoscere il simile a sé, quanto nella dimensione verticale di chi dall’alto non vede altro che una coltre grigia uniforme. Una cortina che non è certo un fenomeno naturale, è semmai il prodotto di un vasto processo sociale generato da una spinta verticale alla modernizzazione che fa fatica a tradursi in civilizzazione diffusa. E determina quel grande disallineamento tra le traiettorie accelerate del progresso tecnico-scientifico e delle relative tecnostrutture funzionali, che si colloca nella dimensione dei «flussi», e la lenta metabolizzazione politica, sociale e antropologica radicata nei luoghi. Traiettorie sulle quali si è interrogato anche un grande storico come Aldo Schiavone, nel suo breve saggio sul senso della nozione di progresso.

ALL’INTERNO DI QUESTA CORNICE sistemica la connotazione sociale dell’invisibilità rimanda a una dimensione critica della relazionalità umana, rispetto alla quale mi è sempre sembrato utile ricorrere alla categorizzazione elaborata da Roberto Esposito e giocata sulla dicotomia Immunitas-Communitas. In altre parole, se l’invisibilità, a partire dalla dimensione micro, è in prevalenza il prodotto dell’incapacità di vedere o della mancanza di volontà di guardare all’altro, è perché il nostro sguardo è guidato da una razionalità «immunitaria». Cosa significa? Significa fondamentalmente che lo sguardo rifugge da ciò che ci «accomuna» in quanto persone, esseri umani, alla collettività dei quali eravamo, in un tempo remoto, gratuitamente vincolati in un meccanismo di reciprocità. Ed è invece attratto da ciò che libera da questa responsabilità grazie a pervasivi dispositivi di mediazione e di regolazione «terzi» (le norme, il diritto, la razionalità economica, i vincoli esterni ecc.) che ci immunizzano dal destino altrui, inibendo i neuroni specchio dell’empatia, e ci permettono di coltivare le nostre microeconomie identitarie ed emotive, costruite sulla fantasmagoria delle precarie distintività di status già descritte da Bourdieu.

L’immunità che produce invisibilità, nonché le varie sindromi a essa connesse, è perciò il propellente di una società sovrabbondante di mezzi funzionali alla costruzione di identità prive di un senso di appartenenza a una qualche direzione collettiva della storia. Tutto ciò è, a mio modo di vedere, ancora più evidente se pensiamo alla rete digitale che, nella mutazione post-Covid-19, è diventata prerequisito tecnico della visibilità, imponendo però una condizione essenziale, ricordata da Marco Bracconi nelle sue riflessioni in presa diretta sulle accelerazioni digitali indotte dalla pandemia: «fare spazio tra le persone e riempirlo di connessioni per le quali poi risultare indispensabile».

LO SPAZIO TRA LE PERSONE è quello di una nuova intermediazione (non certo di una semplice e comoda disintermediazione che rende tutto e tutti visibili!) intorno alla quale si ristrutturano i dispositivi di visibilità e invisibilità sociale, a cominciare da quei corpi sociali che nella tradizione del secolo scorso erano deputati a «rappresentare» le passioni e gli interessi delle persone all’interno di un meccanismo ancora in gran parte di matrice comunitaria o di classe, dando voce e consistenza politica pluralistica agli invisibili del lavoro, della piccola impresa, della cooperazione, dei ceti popolari, dei ceti medi, delle comunità locali lungo la filiera istituzionale ecc. Quella microfisica dei poteri promuoveva e facilitava la visibilità sociale diffusa, ne strutturava i rapporti orizzontali e verticali, ne organizzava le istanze conflittuali producendo forme di solidarietà e senso comune.

Oggi il grande meccanismo immunitario e l’egemonia esercitata dalla dimensione dei flussi, insieme a un’intrinseca difficoltà al rinnovamento interno, ha confinato la microfisica dei poteri al ridotto della difesa corporativa, mentre ancora non si vedono all’orizzonte nuovi soggetti capaci di rappresentare i nuovi invisibili, che sono tuttavia aumentati enormemente per quantità e varietà sociale. D’altro canto l’onda invisibile da immunità connota la polverizzazione del sistema ordinatorio delle classi in quella moltitudine indistinta e frammentata indotta a ricercare micro appartenenze comunitarie che agiscano da dispositivi sociali di protezione dallo spaesamento, dall’anomia e dalla penuria di fiducia nei ceti dirigenti. I quali appaiono «sollevati» dalla moltitudine e non hanno quasi nemmeno più la necessità di coltivare processi di legittimazione pubblica. In questo contesto la ricerca di comunità tende più facilmente ad assumere caratteri deteriori, ovvero a costituirsi in ambiti chiusi, esclusivi, rancorosi, regressivi, con pretese sovraniste.

DEL RESTO non può forse essere altrimenti quando la comunità è espressione di una pura «reazione» alla potenza dei flussi immunitari, cioè quando privilegia l’identità soggettiva rispetto all’identità costruita in relazione, per riprendere la distinzione di Emmanuel Lévinas. E questo mi pare molto evidente se osserviamo le dinamiche di territorio, dove emergono tante faglie di invisibilità rispetto alle quali occorre costruire soglie. Occorre colmare la faglia sempre più profonda che non solo nella società, ma anche nei territori separa élite e popoli. Per capire, oltre alla geografia, vale la pena guardare, come per il luddismo, alla storia, scomodando la memoria tra passato e presente.

Territorio è parola dura e antica sin dalle origini. Nell’Italia dei Comuni incorporava il legame stretto tra spazio e politica. Appare agli albori della modernità nel conflitto tra il riformatore Lutero, alleato dei Principi, e i contadini di Thomas Müntzer, che come ci insegna Max Weber sta a fondamento dell’etica del capitalismo. Anche oggi tira aria da Riforma/Controriforma nel contrasto tra l’Europa del gotico e quella del barocco. Tra i sostenitori della Kultur e quelli della Zivilisation, nelle lunghe derive del moderno che si sono tradotte in un conflitto tra flussi e luoghi. Territorio è parola pesante che rimanda alla terra, al suolo e allo spazio di posizione degli attori sociali. È anche costruzione sociale e forma di rappresentazione del legame tra spazio e politica.

Puntualmente, al di là dei teorici dei flussi secondo i quali saremmo nell’epoca della politica senza territorio, ritroviamo questa parola pesante che s’invola e s’incunea dentro le questioni politiche ed economiche facendosi geopolitica. Si fa geoeconomia, produce riflessioni tardive sull’austerity, preoccupazioni su rallentamenti, stagnazione, recessione e diventa questione sociale, con forme di luddismo agite dai territori del margine contro il centro, sull’antico asse città/contado. Tema che ho evocato per i gilet gialli e che induce a scomporre e ricomporre quella moltitudine gialla, la quale ci appare indistinta senza piú il sistema ordinatorio delle classi e delle rappresentanze sociopolitiche tradizionali.

ORA, L’IRRUZIONE del Covid-19 in questo contesto ha in qualche modo rimescolato le carte, aprendo qualche finestra di opportunità oltre la retorica della comunità nazionale sotto attacco pandemico. La pandemia ha reso evidente che la tenuta sociale nelle città e nei territori non esiste senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della filiera degli invisibili. Non ha retto né il fantasma del welfare state del novecento né la retorica del welfare aziendale, entrambi incentrati su una sussidiarietà dall’alto che delegava al basso, quando non privatizzava esternalizzazioni caritatevoli al terzo settore.

L’impianto piramidale dei flussi, che impattano nei luoghi desertificando le reti sociali e del lavoro, con in mezzo uno Stato ancillare più che regolatore, provoca una gara verso l’alto per pochi e per tanti il precipitare verso il basso dove sono delegati agli uomini dei sussurri della comunità di cura. Che deve prendere voce ricostruendo welfare dal basso, case della salute, non ghetti per anziani o per il disagio psichico in una società della competizione, assieme alla medicina di territorio e di fabbrica, mai cosí attuale. Mettendosi in relazione con le reti territoriali che sono beni collettivi, come la scuola e i servizi nelle città e nei piccoli comuni. Rovesciando la filiera che parte dall’economia, attraversa lo Stato e impatta nei luoghi, nel suo opposto: dalle comunità di luogo alla statualità che fa rete territoriale sino a cambiare le economie in metamorfosi dentro la crisi ecologica e il salto tecnologico.

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SCHEDA. Indagine su un futuro ancora da scrivere

«Abbiamo favorito la creazione di questo mondo, come possiamo rendere possibile la nascita di un mondo migliore, più equo e bilanciato, più giusto e meno lacerato dalle disuguaglianze?». È a questa sfida che intende rispondere «Relazioni», la rivista trimestrale che arriverà in libreria il 21 ottobre con il suo primo numero, pubblicata da Luca Sossella editore e diretta da Stefano Lai, a cui partecipano, tra gli altri, Noam Chomsky (intervistato da Luca Mastrantonio), Derrick de Kerckhove, Simone Pieranni, Franco Berardi Bifo, Alberto Abruzzese, Aldo Bonomi, Patrizia Luongo, Stefan Kaegi, Giacomo Pedini, Maura Latini.