«La letteratura è una funzione sociale», scrive Gramsci in una nota dei Quaderni del carcere (precisamente il paragrafo 29 del Quaderno 6). Sembra quasi volergli rispondere György Lukács quando sostiene che il marxismo, nel momento in cui affronta i problemi letterari, non mette in discussione «semplicemente questioni estetiche». Si tratta, da parte del filosofo ungherese, di un’affermazione, che è anche una dichiarazione di intenti, risalente al 1947 e che compare all’interno di uno dei saggi raccolti in una silloge pubblicata di recente in italiano (György Lukács, Letteratura e democrazia. Il «dibattito Lukács» (1946-1949) e altri saggi, Edizioni Punto Rosso, pp. 211, euro 18).

AL CURATORE DEL VOLUME, Antonino Infranca, ormai da più di trent’anni impegnato nella divulgazione della conoscenza del filosofo ungherese, sia attraverso notevoli monografie sia, come nel caso di cui si sta scrivendo, antologie di testi mai comparsi in italiano, si deve, oltre all’Introduzione, la meritoria e complessa operazione di traduzione di saggi e articoli spesso esistenti soltanto nell’originale ungherese.
Il periodo nel quale sono compresi gli scritti (anche se il primo che compare nell’antologia è del 1942 e l’ultimo di dieci anni dopo) è il quadriennio successivo al ritorno del filosofo a Budapest (28 agosto 1945) dopo l’esilio in Urss durante il quale, come ormai è noto da altre pubblicazioni offerteci da Infranca, fu sottoposto a interrogatorio dalla polizia stalinista. Durante gli anni dal 1946 al 1949, mentre avveniva la stabilizzazione stalinista in Ungheria, Lukács si dedicò all’elaborazione di una critica letteraria che aveva, però, come suo obiettivo politico la «presa di distanza dalle tendenze settarie insite nel partito» e l’accettazione di quegli scrittori veramente «partitici», nel senso che si schieravano, pur non appartenendo ad alcun partito, dalla parte dei lavoratori che consideravano vittime del sistema di sfruttamento capitalistico.

IL PROLETCULT, secondo il filosofo o, forse, sarebbe meglio dire, secondo l’insegnante in un seminario per dirigenti culturali presso la scuola di partito che si rivolge al suo pubblico con il sostantivo «Compagni!» (si legga «Sul Kitsch e sul Proletcult» nella raccolta), si propone come un’espressione tipica del settarismo in quanto prende in considerazione soltanto il raggiungimento della coscienza di classe da parte di un «piccolo gruppo di operai e contadini» ma è incapace di incontrare le grandi masse. Per questo, afferma Lukács, «dobbiamo abbracciare l’arte progressista nella sua interezza», ossia la migliore letteratura borghese, da Balzac a Mann, in quanto sa cogliere nella sua totalità la contraddittorietà dei rapporti capitalistici consentendo, quindi, la maturazione di una altrettanto totale coscienza di classe. In questo modo i saggi «La poesia bandita», «Arte libera o arte diretta?», «Arte sana o arte malata?» propongono il Lukács teorico del realismo in esplicita lotta contro l’antiumanismo nietzscheano, individualista e soggettivista, al quale va contrapposta l’oggettività della rappresentazione del mondo dei lavoratori e della sua lotta contro l’alienazione.

Il cosiddetto «dibattito Lukács» fu originato proprio da queste posizioni del filosofo alle quali fecero seguito gli espliciti atti di accusa, raccolti nell’Appendice dell’antologia, di Fadeev, segretario dell’Unione degli scrittori sovietici, e di Révai, figura importante per le questioni culturali all’interno del Partito ungherese, di cui era di fatto l’ideologo. Qual era, in realtà, la posta in gioco? Qual era l’accusa autentica rivolta al filosofo? Quella di flirtare con la letteratura occidentale, che veniva considerata decadente in toto? Per rispondere viene incontro ai lettori l’Introduzione di Infranca che disegna il quadro storico, il contesto nel quale si svolge la vicenda. Davanti alla progressiva stalinizzazione del movimento comunista internazionale e, di conseguenza, di molti partiti comunisti, fra cui quello ungherese, le teorie letterarie lukácsiane (si vedano in specie nel volume i saggi intitolati «Letteratura e democrazia» e «Lenin e le questioni della cultura») apparivano tanto originali quanto eterodosse e, per questo, andavano condannate, come il loro autore, all’ostracismo. Per chiudere la questione e ritirarsi a vita privata, Lukács pubblicò, definendola in seguito un errore, un’autocritica.

LA PUBBLICAZIONE di quest’antologia sul «dibattito Lukács» sottopone nuovamente all’attenzione un problema congenito ad ogni forma di potere, totalitaria o meno: esiste un rapporto fra cultura e politica? Ciò fa venire alla mente una polemica, sostenuta in Italia da due personaggi quali Croce e Togliatti (conosciuti dal filosofo ungherese e da lui citati in circostanze varie) intorno proprio a questo nodo. Se ne interessò Cesare Luporini che, dalle colonne di Rinascita, trasse la conclusione che tra cultura e politica la separazione è impossibile. Come a dire che fra letteratura e democrazia, non essendoci un primato dell’una sull’altra, si pone una dialettica dalla quale non si può prescindere: Lukács docet!