Ho incontrato Paolo Rosa nei giorni inaugurali della Biennale di Venezia. Studio Azzurro era stato invitato ad esporre il proprio lavoro al Padiglione del Vaticano: un’interpretazione della Genesi attraverso l’opera In Principio (e poi), videoinstallazione interattiva in quattro parti sulla Creazione, progettata appositamente per il padiglione. Quella fu l’occasione in cui si svolse questa conversazione: l’improvvisa scomparsa di Paolo Rosa l’ha resa oggi un’intervista postuma.

Come è avvenuto l’invito a partecipare al Padiglione del Vaticano nel suo debutto assoluto? E che ruolo ha avuto la committenza?

Improvvisa, limpida e lineare. Così è stata la committenza. L’invito, poi, è arrivato poco prima dello scorso dicembre, ma a pensarci bene in modo fortuito e bizzarro: Monsignor Ravasi lo indirizzò a una casella mail sbagliata. No, spiego meglio: la mail era ancora attiva, soltanto che ne avevo aperta un’altra e quella era caduta nel dimenticatoio. Insomma, ero ignaro di tutto, mai avrei immaginato una cosa del genere. Quando Micol Forti, della sezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani m’interpellò per chiedermi se avessi una mail perché c’era l’intenzione di invitarci, rimasi di sasso.
Fui sorpreso, ma colsi immediatamente l’importanza di quell’offerta e della presenza di Studio Azzurro in un Padiglione mai visto prima alla Biennale, rappresentativo del Vaticano. La sfida era potente e affascinante. Da non perdere.

Dicevi dicembre, di sicuro era passato del tempo… L’invito, però, è rimasto valido. Ma con ciò che si sarebbe prospettato da quella data a febbraio con le dimissioni di Benedetto XVI e il nuovo conclave alle porte, come hai lavorato? Hai incontrato Ravasi? C’è stato un confronto, una discussione sul modo e i contenuti delle opere da realizzare?

Sì, era passato del tempo; sebbene ritenessi che avevo ancora spazio per agire, non ero a conoscenza di ciò che di lì a poco sarebbe capitato in Vaticano. L’impetuoso vento della Storia è riuscito ad accorciare il tempo che mi ero prefisso. Le occupazioni erano altre, ma sono riuscito lo stesso a incontrare Mons. Ravasi che, per il ruolo ricoperto, era il responsabile e ideatore del padiglione. Lo vidi e ci parlai durante le dimissioni di papa Benedetto. Il confronto, una volta spiegate le principali questioni, lo ebbi con i suoi assistenti.

Quali erano le questioni poste sul tavolo?

Ravasi mi disse di non volere, sin dalla decisione di partecipare alla Biennale con un padiglione a nome del Vaticano, realizzare una mostra di arte sacra, ma una mostra d’arte contemporanea tout court, ripetendo «non sacra». Avremmo avuto, noi di Studio Azzurro e tutti gli altri artisti, il massimo grado di libertà e di autonomia. Si trattava di affrontare soltanto – dico ’soltanto’ perché l’impresa non fu da poco – il tema della Creazione che avrebbe aperto gli undici capitoli scelti della Genesi. Ravasi lo chiamò «in principio».

Libertà, autonomia, ma un tema da affrontare arduo senza competenze altamente specifiche…

Vero. Ma come ho detto, la sfida era troppo affascinante per non affrontarla, seriamente e con rigore critico. Io, e tutti di Studio Azzurro, ci siamo collocati alla giusta di distanza per mettere a fuoco i problemi che sicuramente si sarebbero presentati.

Studio matto e disperatissimo?

Sì, ci siamo messi messi a studiare. In trent’anni di attività, nessun padiglione italiano ci aveva mai invitato né ospitato. Alla Biennale poi avevamo partecipato a mostre del cinema, all’Esposizione di architettura, alla danza e alla musica collaborando con compositori come Francesconi e Battistelli. E il dover passare alla Biennale in padiglione straniero in patria dopo quello nazionale curato da Sgarbi dove son passati tutti, mi ha illuminato sulla nostra figura di outsider rispetto ad artisti più istituzionalizzati.

Dunque, ti sei sentito responsabilizzato al massimo grado…

Ho costituito uno staff di lavoro. Specialisti ci hanno aiutato a conoscere ed esplorare il mondo della religione e tutta la complessità della scrittura biblica. Io naturalmente ho governato il processo produttivo e tecnologico e il risultato è stato vagliato, senza nessuna pressione.
La chiave interpretativa me l’hanno fornita i carcerati di Bollate come i sordomuti che hanno partecipato alle riprese, poi confluite nella videoistallazione. Mi è parso che queste persone conservassero un’umanità tale da poter essere «curate» da Dio. La loro sofferenza, l’esser chiusi in prigione, il non aver potere di parola e di ascolto non li allontana da Dio come può accadere ad altri, ma potenzia i loro gesti. Dal punto di vista figurativo e cinematografico, è stato sorprendente. D’altronde, sono convinto che, al di là di ogni possibile interpretazione, bisogna rendersi conto che tutto il mondo è in trasformazione. È vero anche per l’arte e il cinema (la pellicola che sparisce), ma al contempo si creano nuove opportunità con il web e il digitale. Il passaggio a un uso umano della tecnologia e della rete passa anche attraverso distorsioni ideologiche: basti pensare allìequivoco del rapporto in rete 1 a 1. Ma sono esperienze e passaggi da compiere.

Più volte hai sottolineato l’importanza di Studio Azzurro e i suoi tre decenni di lavoro a contatto con le realtà istituzionali pubbliche e private, agendo sempre in indipendenza ma mai ai confini dell’arte e delle nuove tecnologie e non perdendo di vista l’elemento umano che proprio in questo periodo è sottoposto per la crisi a sollecitazioni economiche e sociali il più delle volte insostenibili. Come hai tenuto dritta la barra di Studio Azzurro in questa assurda e imprevedibile tempesta?

La crisi è ormai chiara, è stato un anno difficile per una piccola azienda, come noi, di trenta persone. Ci sono stati riduzioni di stipendi e dolorosi tagli e ridimensionamenti, ma non per questo ho smesso di tirar fuori le unghie e pensare modelli nuovi e organizzazione di lavoro.

E quali, visto che il tuo modo di lavorare era già innovativo di per sé?

Penso che dopo questa crisi non si potrà tornare indietro. Le modalità di approccio al lavoro sono mutate, noto un irreversibile limite di sostenibilità perciò ritengo che si possa creare una nuova esperienza costruendo un arcipelago di nuclei di lavoro, indipendentemente da noi ma in forte relazione e che si possano autoformare in tante piccole imprese. Così facendo, da un lato si alleggeriscono i compiti di ognuno, dall’altro si crea e si mette in rete, e direi a norma, uno scambio potente di conoscenze. È ciò su cui sto riflettendo…