Oltre 101 anni senza un proprietario di franchigia afroamericano. Il primato della National Football League potrebbe cadere a breve. Nella lega dei presidenti di fede repubblicana per l’acquisto dei Denver Broncos si è fatto avanti, trattative in corso, il magnate del private equity Robert F. Smith, secondo Forbes l’afroamericano più ricco degli Stati uniti (sette miliardi di dollari). Per l’affare servirebbero circa quattro miliardi, con i Broncos nelle mani di Smith ci sarebbe una specie di anno zero nella Nfl, spesso al centro di accuse, anche giustificate, di discriminazione razziale. Una storia iniziata negli anni Venti, quando la lega della palla ovale fu tenuta in piedi da atleti afroamericani, poi sono stati messi da parte nel decennio successivo dalle politiche razziste del proprietario dei Boston Braves – poi divenuti Washington Redskins, ora Washington Football Team – che li emarginò perché rubavano il lavoro ai bianchi. Quindi i neri furono segregati in squadre locali, in campionati per soli neri, per un sentimento di intolleranza che si inasprì durante la Grande Depressione. Solo nel 1946 c’è stato il primo contratto di un nero, il lanciatore Kenny Washington, nella Nfl.

UN ALTRO  passaggio simbolico nella declinazione del controverso rapporto tra la Nfl e la comunità afro avviene nel 1968, l’anno del pugno verso l’alto di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico per i diritti degli afroamericani, con il primo quarterback (lanciatore) nero nella Nfl. Il quarterback è il ruolo chiave nel football, è la mente che mette in moto la corsa degli esterni per andare in meta, una figura coperta, ancora oggi, per l’80% da atleti bianchi. A distanza di decenni, il campionato di football americano non si è mai speso troppo, a differenza della Nba, per sostenere i diritti degli atleti afroamericani. Resta sempre il microcosmo che ha fatto terra bruciata intorno a Colin Kaepernick, lanciatore dei San Francisco 49ers, che da sei anni è senza squadra dopo essersi inginocchiato per primo durante l’esecuzione dell’inno nazionale prima delle partite, un gesto che mandò su tutte le furie l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump e che è stato poi mutuato in altri sport, dal basket Nba al calcio europeo, divenendo poi la rappresentazione plastica del movimento antirazzista Black Lives Matter. Forse, in attesa del primo proprietario nero di una squadra, quel ginocchio a terra ha cambiato il percorso della Nfl. Diversi atleti si sono schierati contro le proteste contro le violenze sugli afroamericani, un’onda che ha costretto il commissioner della Lega, Roger Goodell, a scusarsi per gli ostacoli posti alle manifestazioni pacifiche dei giocatori.