In base alla classifica di World Rugby, il cosiddetto ranking che viene aggiornato settimanalmente ricorrendo a calcoli e parametri estremamente minuziosi, la finalissima del 2 novembre prossimo vedrebbe in campo gli All Blacks e il Galles. Per nostra fortuna anche a un gioco come il rugby, che poco lascia all’improvvisazione e quasi sempre premia il più forte, può capitare di riservare sorprese.

Nessuno ha dimenticato quel pomeriggio di quattro anni fa a Brighton, quando la nazionale giapponese sconfisse gli Springboks nel primo dei match in programma nel girone di qualificazione della Coppa del mondo. L’evento è ancora oggi celebrato come «the greatest shock in rugby history», qualcosa di mai visto e di inimmaginabile secondo canoni e pronostici: il Giappone era considerato poco più che una buona squadra di seconda fascia, gli Springboks sedevano di diritto al tavolo d’onore nell’Olimpo del mondo ovale. Fu un turbamento improvviso ma non duraturo. La corsa dei nipponici si arrestò prima dei quarti di finale mentre i bokke conquistarono il bronzo finale.

La sfida, l’ultima dei quarti di finale in programma nel weekend, sarà riproposta domenica (Rai Sport HD, 12.15). Con qualche variante sul tema. Prima variante: non si gioca in una sonnacchiosa località balneare inglese, ma al Tokyo Stadium, 50 mila posti, e la squadra di casa sarà sospinta da Fujin, il dio del vento che lo shintoismo pone a guardia dei cieli per proteggerli da Raijin, il fratello collerico che è dio dei fulmini e dei tuoni e si è già fatto sentire con il catastrofico ciclone Hagibis di una settimana fa. Un’intera nazione affiancherà Fujin per trascinare i cherry blossom verso una gloria imperitura.

Seconda variante: è un match a eliminazione diretta e chi perde è fuori. Terza variante: il Giappone non è più una sorpresa, non quando maneggia una palla ovale. Con gli anni è migliorato acquisendo corpo e carattere come capita a un buon vino. Il suo massimo campionato, la Top League, lanciato nel 2003 per dare una struttura professionistica al rugby nipponico, ha ereditato il vecchio torneo delle società commerciali e lo ha trasformato in un gioiello di efficienza. 12 squadre generosamente sostenute dalle più importanti compagnie del Paese, dalla Canon alla Honda, dalla Panasonic alla Toshiba, da NTT a Toyota: la fortuna di essere una nazione industriale. E dal 2015 una franchigia nipponica, i Sunwolves, partecipa al Super Rugby, il torneo annuale dell’emisfero australe.

I Cherry Blossom sono probabilmente la nazionale a più alto tasso di meticciato nel mondo ovale. Otto dei 15 giocatori che vedremo in campo domenica hanno origine neozelandese, australiana, figiana, samoana, sudafricana. Alcuni di loro sono naturalizzati, è il caso delle due seconde linee Luke Thompson e James Moore, o del flanker boero Pieter Labuschagne; altri sono cresciuti rugbisticamente in Giappone, come il capitano Michael Leitch, nato in Nuova Zelanda da padre kiwi e madre figiana ma trasferitosi a Tokyo da ragazzo nell’ambito di un programma di scambi scolastici, una sorta di Erasmus del Pacifico. Ben sei La sfdi loro, compreso il coreano di formazione aussie Ji-won Koo, occupano ruoli nel pacchetto di mischia. La vulgata dell’emisfero Nord (“i giapponesi sono troppo piccoli e leggeri per il rugby”) ha trovato così una valida soluzione.

C’è anche una quinta variante. Forse nessun’altra squadra di questo mondiale riesce a interpretare il rugby in modo così meravigliosamente collettivo come il Giappone. Per averne conferma basta riguardare i match vinti contro Irlanda e Scozia, le due favorite del girone, entrambe piegate a colpi non di power rugby ma di intelligenza e dedizione, sincronia e sacrificio.

Gli Springboks tutto questo lo sanno. Hanno già dovuto piegare la testa una volta e non vogliono ripetere quell’esperienza. Sono favoriti, ma basterà? Rassie Erasmus cercherà sicuramente di conquistare il predominio attraverso il peso e la potenza del suo pacchetto di mischia, otto colossi per 900 e passa chili. Ma dovrà guardarsi dall’indisciplina (Yu Tamura è implacabile dalla piazzola) e le sue ali Mapimpi e Kolbe dovranno vedersela con due dirimpettai di uguale velocità, Matsushima e Fukuoka.

Il primo dei quattro match in programma è Australia-Inghilterra (Rai Sport HD, 9.15), sfida che fu finalissima nel 1991 e nel 2003. Gli inglesi sono favoriti ma il loro cammino da primi nel girone si è interrotto, causa ciclone, prima della sfida con la Francia, lasciando aperto più di un interrogativo. Nel 2011 il XV della Rosa si fermò nei quarti; quattro anni fa non li raggiunse nemmeno. L’Australia è squadra che può tutto (due volte campione, finalista nel 2015) ma è anche capace di clamorosi inciampi. Intanto ha chiuso il girone da seconda, sconfitta con merito dai gallesi.

Il secondo match (Rai Sport, 12.15) è Nuova Zelanda-Irlanda. Pronostico a senso unico, sebbene il Trifoglio sia stata l’unica europea ad aver sconfitto gli All Blacks negli ultimi tre anni. Prima e quarta nel ranking mondiale, un match in meno per i kiwis (l’Italia, affondata dal tifone prima ancora che sul campo), tanta fatica per gli irlandesi, sconfitti a sorpresa dal Giappone prima di ritrovarsi strada facendo. Da un lato una squadra che non sbaglia mai un appuntamento importante, dall’altra la nazione che negli ultimi anni ha segnato di più l’evolversi del rugby nel Vecchio continente ma che ora appare un po’ stanca.

Infine la terza sfida, in programma domenica (Rai Sport HD, 9.15), tra Galles e Francia. Dati per morti o quasi, i galletti di Brunel hanno confermato ancora una volta che in un modo o nell’altro difficilmente mancano l’appuntamento mondiale. Non sono favoriti, molte incognite tattiche e caratteriali pesano su di essi, la mediana di regia non ha ancora definito pienamente le sue gerarchie – sebbene Ntamack e Dupont partano dall’inizio -, eppure sono vivi e pronti a giocarsi le chances da ottavi nel ranking contro un avversario reduce dal Grande Slam nel Sei Nazioni e da quattro vittorie nel girone. Per ora il Galles si è dimostrato uno schiacciasassi, un mix di esperienza (il capitano Alun Wyn Jones, al suo quarto mondiale, i trequarti Jonathan Davies e George North, il flanker Justin Tipuric) e furore giovanile (l’ala Josh Adams, il terza linea Aaron Wainwright) che ha convinto in tutti i match disputati, compresi i più rognosi (Figi). Il match è anche una possibile rivincita della semifinale mondiale del 2011, quando i gallesi giocarono per quasi tutta la partita con un uomo in meno e persero di strettissima misura una finale che forse meritavano.