Tiago Rodrigues continua a sfornare spettacoli a suo avviso di grande «impegno» politico o civile, mentre si appresta ad assumere la direzione del festival teatrale più prestigioso d’Europa, quello di Avignone. Tanta produttività però (sempre garantita da impressionanti sinergie internazionali) rende per lo spettatore più confusa che chiara la sua poetica e il suo messaggio. Dopo il suo complesso quanto vago approdo nella «umanità» degli operatori umanitari nel mondo, cerca ora le ragioni della storia con un affondo nel suo Portogallo, con Catarina, e a beleza de matar fascistas (dopo le repliche tenute all’Argentina sarà a Modena per Ert a fine mese). In scena una famiglia di diverse generazioni, dove tutte le donne si chiamano Catarina appunto, e dai decenni di Salazar continuano ogni anno a uccidere un fascista come rito obbligato (e già il titolo ha suscitato le proteste della destra romana…).

Scandalo e sgomento di tutte quelle generazioni militanti dure e pure, che alla fine però acconsentono con grande sofferenza a far parlare e spiegarsi la vittima designata.

UNA AMBIENTAZIONE, e una realtà, curiose per come ce le descrive Rodrigues: le donne pasionarie e pistolere, i maschi barbudos e rudi ma con gonnelloni e scialli femminili. Praticamente dovrebbe essere un rito liberatorio quello che si perpetua nella comunità, finché la più giovane Catarina sente di doversi sottrarre a quella tradizione sanguinaria, dubitando comprensibilmente che quella forma di ripetitiva militanza sia sufficiente al vivere meglio. Scandalo e sgomento di tutte quelle generazioni militanti dure e pure, che alla fine però acconsentono con grande sofferenza a far parlare e spiegarsi la vittima designata. Scatta a questo punto, dopo due ore abbondanti, la «sorpresa che secondo Rodrigues dovrebbe spiazzare pregiudizi e eventuali «tentazioni» buoniste. Il giovanotto vittima designata attacca una filippica assai vicina quelle che da giornali e tv padronali ci piovono addosso quotidianamente, su bellezza e positività del nostro corrente modello di vita, sulle esigenze sempre più «necessarie» del capitalismo, e altre scontate banalità via dicendo.

UNA SORTA di sfida alla tolleranza del pubblico, che in effetti soggiace per educazione teatrale a quella insulsa sbrasata. Unica soluzione finale, che siano gli stessi spettatori ad alzarsi e lasciar solo l’oratore «fascista». Il principio evoca al massimo la recita scolastica, e tutte le discussioni precedenti sul matar o no matar il malcapitato banalone si rivela un puro metodo di intrattenimento. Apparentemente ignaro di antichi detti popolari a proposito dello scherzare col fuoco…