L’arrivo in sala di Tir dichiara subito un’assurdità: il film di Alberto Fasulo non uscirà a Roma, eppure ha vinto l’ultima edizione del festival capitolino diretto da Marco Müller conquistando la giuria internazionale con presidente il cineasta James Gray. Ma le distorsioni (e le meschine ottusità) praticate nel rapporto distribuzione/esercizio in Italia sono infinite – prova evidente ne è lo stato del nostro cosiddetto mercato cinematografico. Uscirà però in molte altre città italiane (e non perdetelo) distribuito da Tucker Film, piccola e spavalda realtà di cinema indipendente a cui si deve quest’anno, tra l’altro, anche il successo di Zoran il mio nipote scemo (per info su Tir www.tuckerfilm.com). E si vedrà all’estero, primo fra tutti a Parigi, dopo la presentazione (con premio) al Festival internazionale del cinema di Belfort, tra gli appuntamenti più prestigiosi oltralpe per il cinema di ricerca.
Protagonista (ne abbiamo parlato su queste pagine in occasione del festival di Roma) è Branko, un uomo non più giovanissimo che ha lasciato il lavoro di insegnante in Croazia per salire su un camion. Ha bisogno di soldi, i figli, la casa, la famiglia, e la paga a scuola è inesistente. Come lui ce ne sono tanti di camionisti occasionali: l’idea di mettersi a posto gli fa sopportare un lavoro massacrante, umiliazioni, condizioni di vita dure e la distanza dalle persone care per le quali stanno lavorando. Un paradosso, comune però nella condizione di chi oggi come ieri cerca lavoro altrove. Sono cambiati i paesaggi, le regole, la globalizzazione ha uniformato «al basso» (in diritti e tutela) inventando nuovi «padroni» e nuovi «schiavi».
Branko ha come compagno di camion Maki, un camionista più giovane di lui, che quel lavoro non lo sostiene più. Ha un figlio piccolo, vuole vederlo crescere, un giorno esplode e se ne va. Branko invece va avanti, affronta insulti (i camionisti italiani che odiano quelli stranieri perché abbassano la paga), notti in bianco, liti con la moglie, un abbrutimento intimo di solitudine e indifferenza.
Per girare il film Fasulo ha lavorato più di quattro anni (ne firma la sceneggiatura insieme a Enrico Vecchi, Carlo Arciero, Branko Zavrsan, e lo ha prodotto con la Nefertiti film) nel corso dei quali si è trovato di fronte a difficoltà infinite. Per esempio: il camionista che aveva ispirato in partenza il racconto se ne è andato in Australia – era rimasto disoccupato. Il secondo, dopo un anno e mezzo di preparazione insieme, ha deciso che non voleva più farsi filmare. Molti forse avrebbero rinunciato, anche se Tir non è solo il risultato di una speciale e appassionata ostinazione. Fasulo infatti ha trasformato il tempo – e gli ostacoli – in un allenamento obliquo alla narrazione e alla realtà, assumendo di quest’ultima le scommesse, la vita che si trasforma, sfugge dalle coordinate stabilite, e si scontra col «progetto» di chi filma. Da qui la scelta di una dimensione narrativa, che permette eticamente di colmare i «vuoti» del reale, e al tempo stesso di non rinunciarvi. Tir si colloca sul bordo della distinzione, fin troppo pretestuosa, tra «realtà» e «finzione» rimescolando nell’inquadratura i confini di entrambe.
Branko è un attore (Branko Zavrsan, lo abbiamo visto in No Man’s Land ) ma nel film «diviene» – letteralmente, ha anche preso la patente – un camionista. A questo punto però importa poco, la verità è nello sguardo, in quella macchina da presa che fisicamente rimane sempre nell’abitacolo del camion insieme a lui.
Tir più che la storia di un camionista ci racconta un viaggio esistenziale, un road movie dentro a un mondo da ricostruire. Branko non è un novello Ulisse, alla ricerca di sé stesso nell’altrove, e il suo orizzonte non è infinito. Su quella strada che si srotola nel nulla ci appare piuttosto come un recluso, i cui unici riferimenti sono i gesti del lavoro: attese, carichi, consegne, migliaia di chilometri macinati nel vuoto di una notte o di un giorno che finiscono per confondersi. Fuori dalla cabina però non rimane molto di più.
Fasulo nel minuscolo spazio di Branko traduce in narrazione cinematografica il conflitto del contemporaneo, con un personaggio che non incarna nessuna delle categorie predilette oggi dal cinema del reale per mostrarlo. Cosa significa essere sfruttati, e accettarlo perché è quello che si è deciso di fare. Essere guardati male perché più schiavi degli altri, Precariato, schiavitù del corpo, perdita dei diritti, fine della solidarietà. E tocca nel farlo le corde dell’immaginario, commedia, tragedia, ironia, guerra, mitologie in una regia di stringatissima libertà che spiazzare le nostre certezze. Il flusso del tempo (e della vita) complice il montaggio di Johannes Hiroshi Nakajima è lì, nelle luci distratte di posti che non riusciamo a definire, in una sfida senza eroi, dove alla fine non si vince nulla.