La pratica sociale e politica di rapporti di dominio generalizzati costituisce la caratteristica principale del lungo progetto europeo. Il dominio organizzato dalla tradizione occidentale ha qualificato le relazioni tra gli individui, le classi e i popoli e ha trovato la sua massima espressione nel rapporto instaurato con tutte le manifestazioni della vita extra-umana, quelle ricomprese comunemente nel concetto di natura, sancita anche sul piano delle costruzioni filosofiche e religiose.

È questa una delle tesi al centro del libro di Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche, edito da Mimesis (euro 12). Il testo guarda al tempo lungo nel quale il progetto europeo, nonché occidentale e coloniale, si è realizzato e al suo epilogo contemporaneo, caratterizzato dal dispiegamento mondiale del capitalismo nella forma neoliberista.

[do action=”citazione”]Le realtà sociali extra-europee sono state sottoposte alle esigenze del progetto europeo, che si è pensato e ha agito come unico depositario delle corrette logiche di funzionamento del mondo[/do]

Nel tempo lungo, che ha attraversato l’intera modernità muovendo dal Medioevo, questo progetto si è costruito attorno a due grandi principi organizzativi: la ricerca permanente di mondi esterni a quello europeo al fine di sfruttarli a proprio vantaggio e la definizione incessante di confini, dentro e fuori dalle società europee, per meglio governare la vita e le vite da assoggettare. Le realtà sociali extra-europee così come tutte le altre forme e logiche di vita non umana sono state sottoposte alle esigenze del progetto europeo, che si è pensato e ha agito come unico depositario delle corrette logiche di funzionamento del mondo e dell’individuazione e distribuzione dei legittimi interessi. Tutto quanto è stato definito come utile è divenuto l’altro, l’estraneo, l’esterno, quello che, come sottolineò Franco Fortini in una intervista a Romano Giuffrida pubblicata nel 1993, «è sempre l’extra qualche cosa: non è qualcuno con cui realmente ci si confronti nella sua specificità», per cui «noi siamo da una parte, gli ’altri’ dall’altra». L’altro è stato ed è costruito e governato come privo di diritti e di proprie, specifiche logiche di riproduzione, da subordinare alle esigenze e ai meccanismi europei di dominio.

Questo destino è stato delle popolazioni extra-europee, si pensi alla schiavitù, alla Conquista genocida o alla lunga esperienza delle colonizzazioni, così come delle classi povere o impoverite interne, protagoniste del lungo processo di proletarizzazione. Ma il medesimo destino è stato anche delle forme di vita extra-umana, dalle terre utilizzate per la produzione dello zucchero, che sin dal ’500 ha coinciso con la devastazione di intere regioni, intensamente utilizzate e poi abbandonate senza futuro, analogamente al destino successivo di tante aree minerarie e industriali, fino al confinamento di massa della vita animale al tentativo contemporaneo di disciplinamento delle strutture genetiche.

In altri termini, la costruzione dell’altro come inferiore è stata al cuore del progetto europeo, definendone l’identità e la soggettività dei protagonisti. Il progetto, fondato sul dominio, ha investito l’intera vita, interessandone le diverse forme, umane ed extra-umane: «la rappresentazione della natura come qualcosa di estraneo ai contesti umani è funzionale a questo modello, corrisponde all’atteggiamento coloniale della cultura europea e al principio dello sfruttamento illimitato dell’economia capitalistica».

Nel tempo vicino, breve ma profondo, del neoliberismo, le dinamiche e le relazioni di dominio si sono sviluppate con vigore crescente quanto più è divenuto palese il limite strutturale con il quale il capitalismo deve confrontarsi, cioè il limite dell’esaurimento delle risorse. In questo senso, la crisi sistemica delle strutture economiche vigenti ha un carattere inedito in confronto a quelle che hanno scandito la storia del neoliberismo e del capitalismo. Si tratta di una cesura storica, che pone il mondo «sul limite del cambiamento della relazione più lunga della nostra storia: quella tra comunità umane e comunità ecologiche».

Come sostiene Jason W. Moore, siamo giunti ormai alla «fine della strada» del progetto ecologico capitalista, in quanto la crescente tendenza alla capitalizzazione di tutti i fattori della vita accelera l’esaurimento delle condizioni che sostengono l’accumulazione. Di conseguenza, secondo Salvo Torre, è l’intero progetto ecologico della modernità, comprese le sue forme di pensiero, a dovere essere destrutturato, non solo filosoficamente. Le società contemporanee sono di fronte alla necessità di costruire una radicale discontinuità, che muova dalla critica dei principi di divisione tra interno ed esterno e di separazione tra dominatori e dominanti e riformuli la relazione tra comunità umane e comunità ecologiche, assumendo che le prime sono parte delle seconde.

L’adozione di questa prospettiva non vuol dire aderire a una acritica idea di comunità, rinunciando a individuare differenze, gerarchie e conflitti, ma significa mettere in discussione la logica della centralità dell’individuo e quella della competizione che si è affermata con il progetto europeo, sapendo che, in realtà, «la rete della vita è composta da elementi che cooperano e solidarizzano, non concorrono in una lotta spietata, non distruggono ciò che hanno intorno».

In altri termini, si evidenza l’urgenza di riconoscere il fatto che gli individui e le comunità umane sono interne alle più ampie comunità ecologiche, ponendo in discussione la profonda relazione di assoggettamento e sfruttamento che, al contrario, si è prodotta nei riguardi della vita, fino a giungere a sovrapporre «l’idea di eternità tipica di tutte le forme di dominio a quella di sopravvivenza». Questa urgenza è dettata anche dal fatto che, ormai, i limiti ecologici dell’accumulazione capitalista sono divenuti limiti della democrazia stessa, in quanto pongono esigenze inderogabili, mettono di fronte alla necessità di operare scelte fondamentali. In questo senso, il progetto ecologico vigente mostra anche i limiti delle forme di regolazione realizzate nei secoli più recenti, rappresentate dal mercato e dallo Stato e dalle loro combinazioni.

La possibilità di imparare dalle logiche di funzionamento delle comunità ecologiche consente anche di ripensare ai contenuti e al senso della democrazia, che vada oltre il mero riferimento all’umanità privilegiata, titolare di diritti e di parola, e riconosca che, al contrario di quanto pensava Heidegger, anche gli animali, oltre a tutti gli uomini e le donne, hanno attivamente un mondo. Si tratta, in definitiva, di porre fine alla lunga guerra agita dagli esseri umani contro gli altri esseri viventi e una parte significativa dei propri simili per riconoscere la rete della vita di cui tutti facciamo parte, il fatto già evidenziato da Marx che l’uomo è parte della natura, incorporando «le esigenze e i diritti della biosfera come presupposto per il funzionamento delle nostre comunità». E questo può accadere già, sebbene non solo, dalle esperienze, attive da decenni in diverse aree del mondo, di riproposizione di sistemi di gestione collettiva dei beni comuni o di opposizione sociale e politica ai rinnovati progetti di sfruttamento ambientale.

La sfida è davanti a noi e interroga il nostro futuro ma anche il modo di rapportarci al nostro passato ed alla nostra identità di abitanti, insieme ad altri, dello stesso comune pianeta Terra.