Michel Foucault affermò una volta che il «secolo» sarebbe stato deleuziano. La sentenza apparve al momento precipitosa – era il 1970 – forse più dettata dall’amicizia personale e dalla grande stima, peraltro totalmente ricambiata, che Foucault nutriva per l’amico filosofo. Il secolo, se giudicato con gli occhi di quegli anni, non appariva infatti deleuziano. Deleuze era certo un filosofo rispettato. Le sue tesi, soprattutto quelle antipsichiatriche e antipsicoanalitiche – L’Anti-edipo, scritto con Felixd Guattari, uscì nel 1972 – avevano conosciuto un largo successo e avevano guadagnato consensi entusiastici presso i movimenti di contestazione, ma il secolo nel quale erano state elaborate era ancora il «secolo breve», il secolo del conflitto e delle utopie rivoluzionarie. Deleuze, come Foucault del resto, non era certo estraneo a questo clima. Si era impegnato in tante battaglie politiche, seguendo l’esempio di Sartre, che continuava a considerare un suo «maestro», nonostante il discredito di cui era vittima presso le nuove generazioni della filosofia francese.

Tuttavia, nel pensiero di Deleuze era assente proprio la passione intellettuale che aveva caratterizzato il secolo breve: la passione per la negazione, per la dialettica, per il rifiuto. Non c’è niente di più estraneo a Deleuze del titanismo prometeico e ribelle. Niente è più lontano dallo spirito della sua opera di un elogio dell’uomo al lavoro, della finitezza radicale e angosciata, della lotta come mezzo di emancipazione. Non c’è spazio per utopia, messianesimo ed escatologia nella filosofia deleuziana. Forse non c’è nemmeno spazio per la critica se non sotto la forma di una critica di ogni forma di negazione (così deve essere inteso il prefisso anti in espressione come anti-Edipo…). Se letto come lui stesso – un filosofo classico, dopotutto! – voleva che lo si leggesse, il pensiero di Deleuze risulta interamente affermativo, pervaso da una fede razionalista e quasi ottimistico nei suoi esiti.

D’altronde, per Deleuze il filosofo per eccellenza era Spinoza, quello del Deus sive natura, vale a dire il filosofo che afferma che tutto, senza eccezioni, è una modificazione della sostanza infinita di Dio. Per Spinoza, come per Deleuze, vale dunque una proposizione assolutamente indicibile nel Novecento, tant’è che Deleuze si guarda bene dal pronunciarla, lasciando però che sia il suo lettore-complice a intenderla. La proposizione è: «tutto è bene»; o, come meglio si direbbe: «il bene è il tutto», il bene non è nient’altro che l’accadere del tutto, il suo aver luogo qui e ora, un «accadere» che Deleuze chiama «divenire» o «tutto aperto» o «evento» e che divinizza proprio, come già avevano fatto, nella prima metà del Novecento, due dei suoi grandi maestri: Bergson, il filosofo della «durata creatrice» e Whitehead, il filosofo del «processo» (si tenga presente che durata e processo sono, per entrambi, i veri nomi di Dio).

Anche per questo la sentenza di Foucault suonava, al tempo della sua formulazione, avventata. Il secolo breve, infatti, ha sempre preferito riconoscersi nella tesi opposta. Ad averlo persuaso sono i tormenti dialettici di Ivan Karamazov di fronte all’assurdità del male. Dopo Auschwitz, diceva Adorno, è impossibile seguire le orme di Spinoza. Impossibile fare filosofia speculativa, cioè ratificare mediante concetti la bontà del tutto. Il tutto, scriveva ancora il filosofo tedesco, è «falso» e, a consolare l’uomo, resta solo una speranza infondata, un’utopia che balugina negli istanti del ricordo e nelle immagini dialettiche che maculano l’orrore quotidiano.

Su queste discontinuità che come lampi di trascendenza illuminano il sempre uguale della storia (storia del male, secondo questo punto di vista) si sono scritte e si continuano a scrivere pagine e pagine.
Walter Benjamin, che, ben più di Adorno, ne è stato l’ispiratore, è diventato il riferimento obbligato di ogni teoria critica della cultura. Citarlo ammirati è indispensabile se si vuole essere accolti nei piani nobili della filosofia contemporanea. Di lui, non di Deleuze, si dovrebbe allora dire che è stato il filosofo del secolo. La sfida di Deleuze è stata infatti quella di sperimentare, nel tempo del negativo e della critica, la via dell’immanenza assoluta, della continuità uomo-natura e dell’impersonale, mentre quella di Benjamin e di tutti i critici della cultura che a lui si richiamano è stata quella di provare ad ancorare l’esistenza umana alla possibilità residuale di un senso trascendente.

Proprio la recente ripubblicazione del primo volume degli scritti di Gilles Deleuze sul cinema, L’immagine-movimento Cinema 1 (traduzione di Jean-Paul Manganaro, Einaudi, pp. 288, euro 26,00) permette di misurare tutta la distanza che separa il filosofo francese dal secolo (che è invece ben rappresentato dalle tesi di Benjamin).
Deleuze si rivolge al cinema, negli anni ‘80, spinto da una urgenza puramente filosofica. La sua conoscenza della materia cinematografica è impressionante, tuttavia la domanda che Deleuze pone attraverso il cinema è la stessa che era presente fin nelle sue prime opere: come è possibile la filosofia speculativa? Come fare l’immanenza assoluta, come realizzare il Deus sive natura di Spinoza? Solo così si spiega come mai Deleuze, per definire il cinema, si rivolga a Bergson, il filosofo apparentemente meno indicato, dal momento che per il Bergson dell’Evoluzione creatrice (del 1907) il cinema valeva solo come esempio negativo di spazializzazione della durata (il tempo ricostituito assommando istanti immobili, cioè fotogrammi).

Ma Bergson è il filosofo della durata e la durata è il puro cambiamento: è il cambiamento come assoluto. In un cambiamento assoluto non conta più la cosa che cambia. Non c’è più una forma a cui il cambiamento tende come al proprio scopo e alla propria verità. Questo lo credevano semmai gli antichi filosofi, per i quali il cambiamento era una misteriosa degradazione di una forma eterna. Con Galileo e con la scienza moderna il movimento è invece considerato per se stesso. Non è più ricondotto a un istante privilegiato (una «posa»), a una acme, a una idea trascendente, a un valore di cui sarebbe una variazione inspiegabile, ma – scrive Deleuze, coniando un concetto straordinariamente fecondo – è ricondotto all’«istante qualsiasi». Così si costituisce la scienza moderna e così si costituisce il cinema: «Il cinema è il sistema che riproduce il movimento in funzione del momento qualsiasi, cioè in funzione di istanti equidistanti scelti in modo da dare l’impressione di continuità». A questa definizione generalissima del cinema data nelle primissime pagine del suo saggio Deleuze è sempre rimasto fedele. Il cinema è l’arte moderna per eccellenza perché al pari della scienza moderna, come suo fondamento, assume il più prosaico degli istanti, spogliandolo di ogni privilegio ontologico.

Nel secondo volume, L’immagine-tempo, Deleuze mostrerà l’esito a cui porta l’opzione per il cambiamento assoluto, che era già operante all’inizio del cinema (in Marey come nei Lumière): sganciandosi dall’azione, che ancora lo tratteneva nell’orbita del fatto (e cioè nell’ambito della vicenda narrata, dell’intrigo dell’avventura), il cinema, nelle sue più rigorose sperimentazioni contemporanee, presenta «un frammento di tempo allo stato puro». Deleuze intende con questa espressione il puro accadere, il puro aver luogo di quello che ha luogo. Intende l’evento.
Sta insomma provando a rispondere alla classica domanda che chiede quale sia lo specifico filmico: la sua tesi è che sia l’immanenza assoluta, lo spinoziano Deus sive natura. Il cinema è l’arte del reale, o, meglio, è la consacrazione del puro reale. Il cinema «crede» nella positività del reale e, proprio come aveva fatto tre secoli prima la scienza moderna, vi accede attraverso l’umile porta dell’«istante qualsiasi».

Non ci può essere, quindi, posizione più distante da quella teologica e dialettica di Benjamin per il quale l’istante era invece la porta regale dalla quale poteva ancora passare una trascendenza momentanea Il Messia è chiamato in causa da Benjamin per «redimere», in istanti eccezionali, un reale di cui si percepisce tutta la intollerabile contraddittorietà. Al pari di tutto il secolo, Benjamin non crede nel reale. Foucault non aveva però del tutto torto a fare di Deleuze il filosofo del secolo. Se infatti per «secolo» si intende il presente assoluto (l’istante qualsiasi) nel quale ogni vita non cessa di passare, allora veramente Deleuze ne è stato il filosofo e il cinema ne è stata l’arte.