La serie nera non accenna ad arrestarsi. Da oltre un anno, per Salvini, è una gragnuola continua di mazzate.

I tre commercialisti coinvolti nelle inchieste su Lombardia Film Commission e sulla compravendita dell’edificio di Comano sono da ieri ai domicilari. Le loro eventuali responsabilità saranno accertate dalle indagini ma il colpo politico è già certissimo. Perché non solo non sono sconosciuti, come Salvini aveva fatto credere in un primo momento, ma nella Lega sono figure di primo piano.

Uno, di Rubba, è amministratore del gruppo al Senato. Un altro, Manzoni, è revisore alla Camera. Il terzo, Scilleri, fa parte dello studio presso cui è domiciliata la «Lega per Salvini premier».

Se fosse la prima inchiesta che coinvolge la Lega, gli strepiti di Salvini, che in privato si è scagliato contro la «giustizia a orologeria» e contro la «campagna d’odio» contro di lui sarebbe più credibile. Ma di vicende torbide ce ne sono state molte ed è inevitabile che l’onda minacci di travolgere definitivamente la solidità del leader leghista, già messa a durissima prova dai troppi errori politici commessi dal Papeete in poi.

LE STESSE MANIFESTAZIONI che lo accolgono puntualmente in Campania sono il segno di una sconfitta già consumatasi, comunque vada a finire il 20 settembre. Poco più di un anno fa il leader leghista, apparentemente irrefrenabile, sembrava sul punto di conquistare il sud, rompendo così definitivamente con l’eredità nordica della Lega di Bossi.

Oggi il quadro è opposto, con conseguente rafforzamento secco delle posizioni dei leghisti del nord, come Zaia, che con quelle radici non hanno mai rotto del tutto e che usciranno tanto più forti dal prevedibile trionfo del governatore uscente in Veneto.

Lo stesso referendum è un vicolo cieco. Dopo aver votato, sostenuto e pubblicamente difeso il taglio dei parlamentari Salvini non se la è sentita di ammettere che quella posizione quindi era solo il prezzo dell’alleanza con i 5S e di cambiare bandiera.

Ora si trova di fronte a una classsica situazione lose-lose. Se vince il Sì i dividendi andranno tutti ai 5S e, nella destra, alla sempre più temibile rivale Meloni. Se vince il No, per la Lega sarà un successo, dato che il governo ne uscirà fragilissimo, ma per il suo capo sarà una sconfitta.

Senza contare l’incognita dei processi che lo attendono, dove però, di nuovo, ha più da perdere che da guadagnare. Se sarà assolto, con l’immigrazione scomparsa nonostante i suoi sforzi dall’agenda delle emergenze agli occhi degli italiani, sarà salvo ma non senza le enormi ricadute positive in termini di popolarità che ci sarebbero state prima del Covid. Se sarà condannato sarà un colpo da KO.

L’ASPETTO INAUDITO della situazione anomala nella quale si trova la politica italiana è che oggi, a una settimana dal voto delle regionali, nessuno può dire se tra pochi giorni la situazione cupissima nella quale si trova il leader della Lega sarà confermata e anzi irrobustita oppure se il quadro sarà completamente ribaltato.

Entrambi gli esiti sono possibili, forse appesi a un pugno di voti.

La vittoria in Toscana capovolgerebbe nel giro di poche ore tutto: Salvini si ritroverebbe da un momento all’altro sulla cresta dell’onda. L’impatto emotivo, ma anche quello direttamente politico, sarebbero tali da riportarlo ai fasti del pre-Papeete. Tanto più se la destra dovesse vincere anche in Puglia, naturalmente, ma la sfida simbolica paragonabile a quella persa amaramente in Emilia, è oggi solo la Toscana.

In compenso, il cosiddetto «pareggio», 3 regioni alla destra e 3 al Pd, nella situazione data sarebbe per Salvini una Waterloo.