Il filmetto di Raiuno sul commissario Luigi Calabresi non è piaciuto a Marco Travaglio. Nulla di strano. Non è piaciuto a nessuno. Al vicedirettore del Fatto quotidiano, però, non hanno fatto specie particolari come le omissioni sulla girandola di menzogne con cui i questurini di Milano infangarono la memoria di un innocente che, nella migliore delle ipotesi, gli era crepato sotto mano. Neppure si è indignato per la delicatezza estrema con cui gli autori hanno restituito ai posteri la pagina più vergognosa nella storia mai brillante del potere italiano e dei suoi abusi. Si è storto, Travaglio, perché non risulta chiaro che ad ammazzare il commissario fu, stante la verità processuale, l’organizzazione rivoluzionaria denominata all’epoca dei fatti Lotta continua.

Qualcosa, al severissimo, per la verità è piaciuto. Ha apprezzato il «ripristino della verità storica» sulla vittima, come già aveva fatto il direttore della Stampa Mario Calabresi. Però al figlio di un assassinato non si può chiedere di tenere salda la distinzione tra «verità storica» e agiografia. Da un giornalista che la mena da mattina a sera col rigore professionale la si dovrebbe invece pretendere. Ha plaudito alla ricostruzione limpida del «clima d’odio» creato allora da chi chiedeva la verità sulla strage e sulla morte di Pino Pinelli, e forse per incolpevole distrazione ha dimenticato di segnalare che senza il muro d’omertà eretto dallo Stato intorno alla salma di Pinelli quella campagna, con tutti i suoi eccessi, non ci sarebbe stata. Bene, benissimo, però non basta. Non ci sono le riunioni in cui i leader di Lotta continua decidono l’ammazzatina, è finita fuori sceneggiatura la scena madre nella quale Adriano Sofri ordina l’esecuzione, non si fa cenno alla conferma del fatale ordine da parte del medesimo caporione in quel di Reggio Emilia.

E’ vero. Tutto questo dal filmetto manca. Si vede che gli autori, alle prese con una vicenda giudiziaria sulla quale evitare dubbi dovrebbe essere impossibile per chiunque, non se la sono sentita di accreditare la versione santificata dalla sentenza definitiva. Non hanno confuso verità storica e verità processuale, distinzione fondante che dovrebbe essere chiara per chiunque si occupi di queste faccende.
Di dubbi, invece, Travaglio non ne ha: se c’è una sentenza, c’è anche «accertamento irrevocabile». Ovvio, no? Per nulla: se le cose fossero davvero così semplici, bisognerebbe anche asserire, in base a un responso del medesimo Tribunale di Milano, che Giuseppe Pinelli venne a mancare in seguito a un «malore attivo». E a questo, sentenza o non sentenza, scommetterei che non riesce a crederci neppure Travaglio.