Apparirà, forse, superfluo, ma se fosse rivolta una maggiore attenzione a quelle personalità più «defilate» della nostra architettura contemporanea se ne ricaverebbero molti benefici per la tutela del nostro patrimonio storico-artistico. È il caso di Pier Niccolò Berardi (1904-1989), architetto e pittore, al quale Fiesole, sua città natale, dedica una mostra, a cura di Marco Romoli, nel Basolato del Comune, dopo quella fiorentina a Palazzo Medici Riccardi del 2013. Insieme a Nello Baroni, Italo Gamberini, Sarre Guarnieri e Leonardo Lusanna fu tra i giovani del Gruppo Toscano che guidato da Giovanni Michelucci, vinse nel 1932 il Concorso per la Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella.

GIORGIO BASSANI, in un breve profilo che dedico nel 1973 alla sua pittura colse l’occasione di dire che si doveva a quel giovane ventottenne, «dotato di buon gusto e delle buone maniere», se non accaddero «certe soluzioni d’un estremismo specialmente sciagurato». A quella impronta di moderata espressività – prima razionalista e poi nel dopoguerra di stilizzate rivisitazione dell’edilizia rurale – si rivolge Berardi nella sua lunga carriera professionale. Michelucci fu il primo a cogliere questo suo aspetto di sana «modestia».
Il maestro toscano riconobbe al suo «amico di molti decenni» di avere inserito «armoniosamente le sue ville, gli alberghi e le vecchie case coloniche sapientemente ristrutturate nel contesto del paesaggio, con una nitidezza, una modestia e una vena di poesia da rasentare la fiaba». In questa dimensione appena sussurrata dei volumi architettonici che «non altera e non interrompe l’armonia» dei luoghi risiede la cifra stilistica alla quale Berardi rimarrà sempre fedele e che costituisce il leitmotiv fin dalle sue prime prove negli anni Trenta: dalla «semplicità vigilante» del Cinema Palazzo a Brescia, che come scrisse Carlo Belli dà «tutto nudo, terso e pulito», al progetto dello Stadio Mussolini nella stessa città lombarda, fino al volume disteso del progetto della Stazione ferroviaria di Venezia.

NEGLI ANNI SESSANTA la linea orizzontale che segna il suo periodo razionalista sopravvive quasi nelle sue forme originarie nel Museo della Manifattura Doccia (1965) a Sesto Fiorentino. Qui è necessario ricordare che la splendida e preziosa collezione di opere di porcellana iniziata da Carlo Ginori si trova ancora in uno stato di abbandono dal 2014, quando fallì l’azienda Richard-Ginori. Purtroppo l’accordo dello scorso anno firmato tra Regione, Mibact e Comune che si impegnavano alla riapertura del museo dopo il suo riordino, non è ancora avvenuta e inspiegabilmente tutto sembra caduto nell’oblio a dispetto del tanto magnificato made-in-italy. Torniamo però alla mostra e all’intensa attività dell’architetto-pittore Berardi. La complessa relazione che instaura con la storia e la tradizione è il fulcro intorno al quale ruota la sua ricerca già da quando giovanissimo i suoi scatti in bianco e nero di case coloniche toscane corredano la mostra di Giuseppe Pagano alla VI Triennale di Milano.

È IL 1936 e lo scontro tra Anciens e Modernes è nel vivo della polemica: entrambi ricercano una legittimità dalla storia per accreditarsi nei confronti del regime fascista. Berardi è un uomo libero, detesta l’orbace quanto l’architettura accademica e ha un rispetto profondo per tutto ciò che nel paesaggio preesiste, «dove il Padreterno ha già progettato tutto – dirà in una intervista – non puoi osare aggiungere e togliere nulla». Interloquire con l’architettura spontanea è lo stratagemma che gli permette, mimetizzandosi come le sue ville seminascoste nella campagna, di evitare illusioni, magari sconfitte come si verificherà, negli anni della Ricostruzione e ancora per qualche decennio dopo, con il ritorno del «paternalismo accademico» (Zevi) e il «miraggio di dedurre le forme dall’ideologia» (Gregotti).

PER USARE le parole di Roberto Pane, Berardi sa di partecipare alla «musicale armonia» dell’«ambiente antico» e che non ha alcun merito per i «significati di quell’ambiente, dal momento che li ha semplicemente ereditati». Tuttavia con esso instaura un produttivo dialogo senza enfasi e verbosità. È d’esempio ciò che propone per la ricostruzione delle zone distrutte dalle esplosioni naziste intorno a Ponte Vecchio affinché i resti – il Palagio di Parte Guelfa, la Chiesa di S. Stefano e le Torri – non fossero «devitalizzati» perché troppo isolati o «sommersi» da nuove costruzioni. Indicò come ricomprenderli in un tessuto dalla «sobria modernità». Una lezione da tenere a mente in tempi di effervescente gentrificazione nelle nostre città.