Ieri abbiamo dato a Lidia Menapace quello che viene chiamato «l’ultimo saluto», ma il riferimento a lei resterà continuo, ogni giorno. Ci sorprese nel 2008 chiedendo la tessera di Rifondazione. Era stata per anni nostra compagna di strada nei movimenti, indipendente eletta nelle nostre liste e aveva aderito alla Sinistra Europea. Fece quella scelta, accettando anche di entrare negli organismi dirigenti, proprio quando eravamo finiti fuori dal parlamento e dai media. Probabilmente prima non pensava che ci fosse bisogno di lei, certo condivideva l’idea di ricominciare dal basso a sinistra, il bilancio assai critico dell’esperienza di governo con il centrosinistra, lo statuto che afferma che comuniste/i «perseguono il superamento del capitalismo e del patriarcato». D’altronde Lidia era stata una rifondatrice comunista ante litteram, era di quelli del Manifesto. E la rifondazione femminista, pacifista, radicalmente democratica del comunismo è stata l’impegno di tanta parte della sua vita. Lidia è sempre stata convinta del bisogno di «fare uno sforzo di creatività e cercare nuove strade» ma non certo per rassegnarsi allo stato delle cose. L’implosione del «socialismo reale» per lei non aveva significato la fine della necessità di un punto di vista anti-capitalista, anzi il problema era quello della debolezza soggettiva dell’alternativa in presenza di un’oggettiva crisi strutturale del capitalismo.

Scriveva che «un comunismo altro è possibile, anzi necessario», ma «non riconosco legittimità di dichiararsi comunista a chi ignora il femminismo». Nel 2019 fu felicissima della tessera viola con l’immagine di Rosa Luxemburg, la personalità a lei più cara del marxismo e comunismo novecenteschi. Non si stancava mai di ricordare che «il proletariato mondiale è composto da quasi tutte le donne del mondo, e da molti uomini sfruttati: il movimento reale che muta lo stato di cose presenti non può essere reale se non riconosce questa analisi e non costruisce una cultura politica complessa, e destinata a restare tale, cioè a non subire processi di riduzione della complessità e di “sintesi” che alla fine si concludono con l’unico dio o padre o capo, maschio o similmaschio (cioé donna emancipata e maschilizzata)». Smitizzava le sacre icone, da Lenin fino a Togliatti, ma non praticava l’abiura, anzi valorizzava pagine dimenticate da cui traeva aneddoti per le sue «teorie d’occasione».

La sua visione del comunismo e della Resistenza era antieroica e fuori da ogni celebrazione delle virtù virili e militaresche ma Lidia non era moderata neanche come pacifista. Quando proponeva l’opzione dell’azione nonviolenta non condannava le legittime resistenze armate, ricordava che non era «necessariamente legale e remissiva», era «del tutto interna alla storia del movimento operaio e sindacale» e che «l’unica rivoluzione del Novecento andata a buon fine senza violenze é stata proprio la rivoluzione femminista». Alla direzione della nostra rivista Su la testa aveva riproposto la sua riflessione anni ’80, dei tempi del “Movimento politico per l’alternativa”, sulla complessità dandone una lettura ben diversa da quella di Luhmann insieme alla ricerca sui limiti delle forme della politica che non la spingeva a rifiutare l’organizzazione ma al superamento del «partito monoteista». Proprio su il manifesto intervenne nel dibattito «C’è vita a sinistra» sostenendo le nostre posizioni unitarie e pluraliste a partire dalla consapevolezza dell’impossibilità della reductio ad unum. Lidia ci lascia molto materiale, ma soprattutto una lezione di stile: avere forti convinzioni senza essere escludenti, il linguaggio democratico, mai gergale e incomprensibile («la semplicità, che è difficile a farsi»), il sorriso con cui si predisponeva alla relazione, la curiosità e l’amore per la vita che l’aveva portata nel 1980 al concerto di Bob Marley e a preferire le case di compagne/i agli alberghi. Non è stata solo una compagna di partito ma molto, molto altro: un riferimento imprescindibile per tutta l’altra Italia. Tutte/i insieme abbiamo ancora molto da imparare dalla compagna Lidia Menapace.